La vicenda Rai è una faccenda seria dove la navigazione strategica è messa a repentaglio da scogli micidiali. Ed è un peccato che solo qualche intimo segua i report dei nuovi vertici alla commissione parlamentare di Vigilanza sull’azienda di cui il Parlamento è in effetti l’editore. Ne emerge la necessità di una riforma radicale dei ricavi, dell’offerta editoriale e dell’organizzazione interna della rete.

Riassumendo in breve, la Rai, che rastrella (canone, pubblicità e introiti vari) attorno ai due miliardi e mezzo di euro, è giunta a cumulare un debito di 523,4 milioni per compensare il passivo del decennio. Questo “tirare a campare morendo lentamente” è arrivato all’ultima stazione perché il debito oltre l’attuale non può crescere.

Per riconquistare margini d’azione esistono solo due vie: l’aumento dei ricavi e il ripensamento dell’offerta insieme con l’organizzazione ad essa collegata. Su entrambi i fronti son dolori.

Per le forze politiche qualsiasi dirottamento di risorse verso la Rai apre una tregenda di polemiche e ricatti perché da anni il populismo di mezza tacca ci s’ingrassa, ma anche perché i cosiddetti riformisti hanno lasciato scorrere invano ogni scadenza e, semmai, hanno pescato di nascosto nel borsellino del canone per farsi quadrare i conti altrove.

Il corpo aziendale

Ma non è meno lancinante per la vita interna dell’azienda un mutamento editoriale e, dunque, organizzativo che invece che sommare come d’uso il nuovo al vecchio (strada sbarrata dal limite del debito) si attui riconvertendo l’esistente.

In questo caso l’azienda intera vede vacillare il vecchio perimetro spaziale e temporale ed entra in sofferenza diffusa e molecolare a seguito di ferite a orgogli di mestiere e a carriere inerziali che paiono svanire, i contraccolpi di “altri” orari di lavoro che turbano assestati equilibri fra la casa e la famiglia, fino ai mutui e agli studi dei figli finanziati dall’ampia opportunità di straordinari festivi e notturni più remunerativi.

Questo universo di nicchie definite da vantaggi correnti o da disagi paventati non è un connotato della Rai, ma di qualsiasi corpo aziendale di qualche dimensione. Si deve comprendere che un corpo aziendale messo alle strette dal bilancio non è materia molle pronta ad assumere ogni forma, come è palesemente accaduto in Alitalia.

I telegiornali notturni

Assume risalto in questo senso la questione, in sé minore, della cancellazione dell’edizione notturna del Tgr deliberata dagli amministratori della Rai a partire dal prossimo 9 gennaio.

Il motivo, esposto ai parlamentari, è che l’audience a quell’ora è quantitativamente marginale e che qualsiasi emergenza locale trova risuono nella striscia notturna che prolunga e conclude il palinsesto del canale. Circostanze ed argomenti ai quali, stando al merito, è palesemente irragionevole contrapporsi.

Quale che sia l’azienda, tuttavia la fisiologia della resistenza al cambiamento, anche il più scontato e circoscritto, non ha a che fare con la logica formale, ma con la condizione esistenziale nell’immediato e in prospettiva delle persone interessate anche quando non rischiano il posto di lavoro.

Quel che rileva è: che quella ventina e passa di Tgr di 5 minuti cadauno, diramati contemporaneamente nel pieno della notte, sono comunque traguardi di azione individuale di giornalisti, tecnici, impiegati delle sedi Rai; che in quegli spazi minori si accomodano interessi e ceto politico locale restii a smarrire certezze di visibilità per quanto minime.

La concretezza di questi interessi si sta puntualmente manifestando attraverso prese di posizione politiche e sindacali basate essenzialmente sul rilancio. Sicché i mondi che da lustri fanno orecchie da mercante a chi manifestava dolore per l’assurda, inflazionata, disfunzionale e suicida pletora dei Tg Rai, ora reclamano che la riforma dei medesimi sia governata dal tutto o niente.

Il tutto in avvenire, il niente nel presente. Un inchino alla astuzia miope e alla retorica che richiama quello famoso della Costa Concordia, all’isola del Giglio.

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