Blocco dei licenziamenti, potenziale crescita della disoccupazione, reddito di cittadinanza, occupazione giovanile. Sono queste alcune delle tematiche più calde che Mario Draghi si troverà presto a dover gestire.

Urgenze che sembrano nuove e direttamente legate alla pandemia ma che in realtà sono ben fondate sui problemi storici del mercato del lavoro italiano.

Dalle prime parole pronunciate dopo il colloquio con Sergio Mattarella sono emerse sia le urgenze principali, giovani e coesione sociale, sia, soprattutto, un metodo: il confronto con le parti sociali che verranno incontrate da Draghi alla pari dei partiti.

Il paragone storico potrebbe essere quello, valido anche per altre ragioni, con il governo Ciampi che poi portò al “Protocollo Giugni” e che lascia intendere la consapevolezza che proprio sul lavoro e sulle questioni sociali si giocheranno i prossimi mesi.

Due in particolari i fronti aperti: da un lato il modo in cui verrà gestito lo sblocco dei licenziamenti, ormai congelati da quasi un anno e, dall’altro, come verranno usate utilizzate le risorse del Recovery Fund che, nel piano presentato dal governo Conte, sono genericamente allocate secondo macro-obiettivi.

Draghi si troverà di fronte un sindacato compatto come mai negli ultimi anni a chiedere il prolungamento del blocco dei licenziamenti e il rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e, dall’altra parte, le associazioni datoriali, soprattutto Confindustria, che da mesi chiede uno sblocco e una riforma degli ammortizzatori sociali della quale però nessuno vuole veramente farsi carico un momento che è ancora considerato se non di emergenza, almeno di transizione.

Parti sociali che paiono però ignorare l’ampia quota di lavoratori colpita dalla crisi degli ultimi mesi, in particolare proprio quei giovani di cui Draghi ha parlato non solo nel recente intervento di Rimini, ma anche protagonisti delle poche parole in sede di accettazione dell’incarico dopo il primo colloquio con Mattarella.

Draghi si troverà quindi a dover trovare punti di equilibrio tra una difesa sindacale dei lavoratori tutelati dal blocco dei licenziamenti, la richiesta datoriale di poter ridurre la pressione del costo del lavoro (mediante il licenziamento) alla luce sia del calo della domanda sia del mutato scenario di mercato per molti settori e la condizione giovanile che vede gli under 35 fermi ai blocchi di partenza di un mercato del lavoro ingessato in attesa di un ritorno a una presunta normalità.

Ma il fronte delle relazioni industriali si lega a quello della politica industriale e quindi sia a nodi storici come la produttività  e i salari sia alla condizione post-bellica che si troverà di fronte ampia parte del tessuto produttivo italiano.

Siamo infatti nel mezzo di una stagione di rinnovi contrattuali nei quali la componente salariale sta giocando un ruolo fondamentale, spesso ignorando i confini e le regole che le stesse parti sociali si erano dati, ma pur sempre con un convitato di pietra: i licenziamenti congelati.

Cosa avverrà dopo è difficile da prevedere ma pare essere un discorso che nessuno oggi vuole affrontare, sia in termini di ristrutturazione del tessuto produttivo italiano sia della gestione della potenziale ondata di disoccupati.

Disoccupati che magari si sentivano sicuri per un posto fisso che li ha traditi e che erano prima le prime linee del sindacato presente in quelle “aziende zombie” di cui proprio Draghi ha parlato e che si sono viste fallire dopo anni di galleggiamento.

E qui si colloca anche il nodo del rinnovo e dell’eventuale tagliando al reddito di cittadinanza, uno strumento che durante la pandemia ha sostenuto i redditi dei soggetti più fragili, probabilmente evitando degenerazioni nella tenuta sociale ma poco efficace dal lato delle politiche attive del lavoro.

Su questo fronte Confindustria si è espressa più volte per un superamento dell’assetto attuale, più difficile comprendere invece l’atteggiamento sindacale.

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