Reddito di cittadinanza e quota 100 e sono state le due misure economico-sociali più discusse negli ultimi anni. Due misure diverse, il cui racconto non è stato senza contraddizioni. Da un lato l’idea che il lavoro è fatica e pena e in quanto tale chiama al più presto il “meritato riposo”, indipendente dalle possibilità concesse dallo stato di salute del sistema di welfare e dallo scenario demografico, la seconda invece condita dall’excusatio non petita che recitava come, al contrario, nessuno sarebbe “rimasto sul divano”, riconoscendo così il rischio di un effetto puramente assistenzialista del sussidio.

A due anni e mezzo dalla Legge di Bilancio che istituiva queste misure possiamo dire che il loro stato di salute non è dei migliori e che molte delle promesse che ne hanno accompagnato l’introduzione si sono rivelata false, come d’altronde era facile prevedere.

Su Quota 100 pesa il fatto che le condizioni di accesso erano penalizzanti, più di quanto fosse stato raccontato, portando così a poche richieste. E dove le richieste ci sono state non sono seguite, come ha mostrato recentemente il Rapporto annuale dell’INPS, le assunzioni di giovani da qualcuno previste addirittura nella misura di 3 assunti ogni pensionato.

Quanto al reddito di cittadinanza, il secondo pilastro della norma, quello che doveva supportare le persone nella ricerca del lavoro, non è mai decollato perché costruito sulle fondamenta delle inesistenti politiche attive del lavoro italiane.

Ha funzionato meglio invece il pilastro di lotta contro la povertà, pur con molte disfunzioni che proprio in questi giorni la Caritas ha sottolineato e che fanno sì che molte delle famiglie in stato di povertà non siano raggiunte dalla misura. 

Educare al sudore

I temi sono centrali ma è difficile affrontarli all’interno di un dibattito manicheo in cui il convitato di pietra è il modello di lavoro contemporaneo, profondamente economicista e produttivista, che sembriamo ormai dare per scontato. Senza rimettere a tema questo è difficile andare lontani.

Su queste pagine Nadia Urbinati ha sviluppato una fortissima critica sostenendo che in fondo chi sostiene che gli strumenti di supporto al reddito debbano essere accompagnati da una disponibilità concreta al lavoro altro non stia facendo se non che una riedizione di quella “educazione al sudore” di cui non sentiamo la mancanza.

La stessa tesi potrebbe essere sostenuta di fronte a chi segnala che occorre tenere alti i criteri anagrafici per l’accesso alle pensioni. Il discorso è però più complesso e incrocia da un lato una dimensione di sostenibilità dei conti pubblici, soprattutto nel caso delle pensioni, ma anche di fronte a ipotesi di un reddito di base incondizionato e, dall’altro, l’idea che qualsiasi politica del lavoro deve avere del lavoro stesso.

Perché quando parliamo di questi temi la sfida è quella di tenere insieme i due piani ed è inevitabile che un compromesso sia necessario, così come è difficile negare che anche scegliere di privilegiare il nodo della sostenibilità dei conti pubblici è prendere una posizione filosofica ben chiara, non un semplice aderire alla coercizione della realtà quanto piuttosto ad un modello che accettiamo ormai acriticamente.

A cosa serve il lavoro

Occorre ripartire da un esercizio non più molto comune, ossia dal dire chiaramente se riteniamo che il lavoro abbia o meno un valore per le persone oltre alla mera dimensione economica. E qui le posizioni sono diverse, c’è chi pensa che il lavoro in sé, come Karl Marx ha più volte sostenuto, sia veicolo di espressione matura del rapporto tra l’uomo e la realtà, ma che allo stesso tempo tale rapporto non sia possibile nel sistema capitalistico.

C’è invece chi pensa, come ad esempio espresso nell’enciclica Laborem Excersens, di cui ricorre il quarantesimo anniversario, la possibilità di dignità sia implicita in ogni attività lavorativa. In mezzo a queste posizioni c’è lo spazio per il compromesso politico che deve parallelamente attivarsi per la promozione di processi di innovazione che consentano di generare lavoro di qualità che segua modelli organizzativi e processi di valorizzazione del capitale umano che non sviliscono le persone ma consentono di trovare spazi di libertà nel lavoro.

Il resto viene dopo, perché così affrontare il discorso di una più lunga permanenza al lavoro (pensioni) e di un rapporto tra sussidi e disponibilità, per chi può, a lavorare (reddito di cittadinanza) sarà più semplice. 

© Riproduzione riservata