Come in ogni campagna elettorale circolano teorie farlocche per orientare il voto. Quelle a favore del No sono, per forza di cose, le più creative. Dato che per oltre 40 anni e fino a pochi mesi fa difficilmente nel dibattito accademico, giornalistico, politico si sono sentiti argomenti contrari al taglio dei parlamentari.

Una ipotesi avanzata a ripetizione - a cominciare dalle proposte assai più drastiche di quella attuale da parte del Dc Gerardo Bianco, capogruppo alla Camera dal 1979 all 1983, e del comunista Pietro Ingrao, presidente della Camera dal 1976 al 1979 - con l’intento di rafforzare l’autorevolezza dei singoli eletti e del Parlamento. Ma in campagna elettorale i dati di fatto contano ancora meno del solito.

Per esempio, la riduzione del numero riduce la capacità di controllo dei parlamentari sul governo? Per rispondere con dati di fatto basterebbe sapere che il parlamento controlla il governo attraverso gli “atti di sindacato ispettivo” (7 diversi tipi di interrogazioni e interpellanze). Alcuni sono puramente liturgici perché il governo può non rispondere. Lo fa nel 15-20 per cento dei casi, cioè quando la domanda gli aggrada. Le interrogazioni a cui non può sottrarsi sono di tre tipi (vedi statistiche).

Nei primi due anni della legislatura in corso, il numero di queste “interrogazioni a risposta obbligata” è stato pari a 1891: in media, una all’anno per parlamentare. Dunque, per bilanciare la riduzione del loro numero basterebbe che la produttività degli eletti salisse da 1 a 1,3 interrogazioni a testa all’anno. Ciò detto, qualcuno di voi si ricorda se nell’arco della sua vita ha mai sentito parlare di una interrogazione parlamentare che abbia cambiato il corso dell’intervento pubblico o la carriera di un ministro in Italia? Se sì, non è capitato di sicuro grazie al numero dei controllori.

Ci sono poi leggende metropolitane bipartisan, condivise da sostenitori del Sì e del No. La principale riguarda il nesso tra riduzione dei parlamentari e legge elettorale. Si dice che per bilanciare la riduzione del numero si deve passare ad un sistema elettorale proporzionale.

La verità è che tra la riduzione del numero complessivo dei parlamentari e la legge elettorale non c’è quasi nessuna relazione. La riduzione del numero complessivo non altera in modo rilevante il rapporto tra la percentuale di voti ricevuta da un partito e la percentuale di seggi che gli spettano.

Ipotizziamo che vinca il Sì, che rimanga in vigore la legge elettorale Rosato e si proceda a un mero adeguamento tecnico di collegi e circoscrizioni.

Il Rosatellum assegna il 37 per cento di seggi in collegi uninominali. La riduzione del loro numero non altera, ovviamente, le probabilità di vittoria di ciascun partito o coalizione in ogni collegio. L’ulteriore 63 per cento dei seggi della Camera sono ripartiti tra coalizioni e partiti sulla base del totale dei voti ricevuti al livello nazionale.

Un partito con il 4 per cento dei voti riceveva e continuerebbe a ricevere circa il 4 per cento di questi seggi. L’unico effetto reale si avrebbe nelle regioni più piccole per i seggi senatoriali, che in base alla Costituzione sono attribuiti regione per regione.

Ad esempio, mentre nel 2018 in Abruzzo al Pd/Centrosinistra è bastato il 18 per cento dei voti per prendere uno dei 5 seggi in palio nella quota proporzionale, gli servirebbe il 26% per prenderne con certezza uno dei 3 in palio dopo il taglio. Questo è tutto! Se si volesse evitare tale effetto, che ovviamente non svantaggia sempre gli stessi partiti, basterebbe cancellare i collegi uninominali della legge Rosato solo nelle regioni più piccole.

Per intendersi, se le elezioni del 2018 si fossero svolte per assegnare 600 seggi invece di 945, con lo stesso tipo di legge elettorale e con gli stessi orientamenti di voto, i rapporti di forza tra i partiti in Parlamento sarebbero stati pressoché identici. Quindi, non è di certo la riduzione del numero dei parlamentari la vera ragione per la quale alcuni partiti ora spingono per un sistema puramente proporzionale.

Aggiungo che, per evitare il problema appena citato (la crescita della soglia implicita per il Senato) è in discussione una “proposta Fornaro” (Leu) tecnicamente difettosa. All’articolo 57 della Costituzione, la formula il Senato “è eletto a base regionale” cambierebbe in “a base circoscrizionale”, per consentire, nell’immediato, la creazione di circoscrizioni pluriregionali tra le regioni più piccole. Peccato che così si crei un problema interpretativo.

Deputati autorevoli in materia mi dicono che con questa nuova formulazione si vogliono rendere possibili tutte le varianti, come per la Camera. Ma per la Camera, volendo lasciare sul punto piena libertà al legislatore ordinario, la Costituzione non dice niente. Se invece per il Senato dicesse qualcosa, sarebbe inevitabile chiedersi: quale “ulteriore vincolo” pone la prescrizione della base circoscrizionale?

A quel punto, non senza appigli, la Corte Costituzionale potrebbe per esempio assumere che, alla lettera, quella formulazione va intesa come un divieto di creare collegi uninominali. Banalmente, se si vogliono rendere Camera e Senato uguali, si deve scrivere (o non scrivere) in Costituzione la stessa cosa per l’una e per l’altro. Se no, la norma deve far capire bene in cosa consiste la differenza.

In sintesi, suggerisco mestamente di non farsi obnubilare dalla campagna referendaria, di scansare gli argomenti in palese contrasto con la realtà e di meditare su ulteriori modifiche costituzionali scritte di getto, solo pensando a obiettivi immediati.

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