Regalare il Donbass alla Russia vuol dire piegare la pace al sopruso

Nelle stanze chiuse della diplomazia, ha raccontato il Financial Times, Vladimir Putin avrebbe ancora messo sul tavolo di Donald Trump l’offerta indecente: il cessate il fuoco in cambio del Donbass. Il presidente americano si sarebbe spazientito di fronte all'ennesima predica sulle «ragioni profonde del conflitto» di Putin che addirittura avrebbe richiamato il suo saggio distopico del 12 luglio 2021 Sull'unità storica di russi e ucraini. I negoziati ora si sono bloccati e sono annunciate nuove sanzioni per la Russia, che peraltro hanno aperto all'ultima prospettiva che più inquieta Putin: il congelamento degli asset russi anche alla fine della guerra, almeno fino a quando la Russia non avrà contribuito alla ricostruzione completa dell'Ucraina. Finalmente si torna a parlare di diritto internazionale: anche solo ipotizzare che la pace possa essere negoziata cedendo territori occupati riporterebbe l’Europa indietro di ottant'anni, a un tempo in cui la forza riscriveva le mappe e la politica accettava di trasformare il diritto in merce di scambio. Il Donbass non è una frontiera da disputare: è parte costitutiva dell'Ucraina, riconosciuta dalla storia, dalla memoria e dal diritto internazionale. Capire perché richiede di guardare dentro la sua storia profonda, dove la geografia incontra la tragedia e la legge diventa memoria collettiva. La soap opera di Donald e la resilienza di Vladimir Il Donbass nacque come terra di confine, ma decisamente ucraina ed europea. Nella steppa orientale, tra il Dnepr e il confine russo, si incontrarono nei secoli ucraini, tatari, greci, ebrei e solo dopo giunsero minatori venuti da ogni parte dell'Impero russo. Nell'Ottocento la regione aveva stretti legami con l'Europa: investitori e imprenditori belgi, francesi, tedeschi e svizzeri contribuirono a trasformarla in un polo industriale, introducendo tecnologie moderne, impianti siderurgici e miniere. Parallelamente, la regione fu crocevia della cultura dell'Europa: musicisti, artisti e intellettuali europei lasciarono tracce nella vita culturale locale. Non vi è dubbio che a un certo punto sul Donbass arrivò l'influenza russa, ma solo per le politiche imperiali e coloniali: la Russia zarista pose quel distretto industriale sotto controllo centrale, e l’Unione Sovietica ne fece un laboratorio di russificazione. All'inizio del Novecento il 65 per cento degli abitanti parlava ucraino; un secolo dopo, appena il 10 per cento. Mosca impose il russo come lingua di lavoro, trasferì masse di operai dalle più remote province della Russia e represse ogni autonomia culturale. La ferita più profonda ha un nome che ancora oggi identifica una colpa storica: l'Holodomor. Tra il 1932 e il 1933, Stalin impose una carestia artificiale per punire i contadini ucraini che resistevano alla collettivizzazione. Milioni morirono di fame anche nelle province del Donbass, allora fertili di grano e di vita. Interi villaggi furono cancellati. Scrive lo storico Timothy Snyder, autore di Bloodlands: «La memoria dell'Holodomor ha lasciato una diffidenza profonda verso ogni potere centrale, che Mosca oggi manipola come se fosse nostalgia». Mosca è resiliente. Ma la posta in gioco ora è molto più alta La Russia degli anni di Putin ha rovesciato la narrazione: la diffidenza è stata tramutata in presunta «identità autonoma» del Donbass. È così che la propaganda ha potuto presentare l’invasione del 2014 come una «ribellione popolare», quando in realtà non esisteva nessuna profonda istanza secessionista. Nel referendum del 1991, oltre l'80 per cento degli abitanti di Donetsk e Luhansk aveva votato per l’indipendenza dell’Ucraina. Come documenta la politologa Kateryna Zarembo, «la lealtà civica verso Kiev era stabile e maggioritaria fino all'intervento armato russo». Il "popolo del Donbass" è stato dunque inventato dal Cremlino, facendone un artificio politico per mistificare l’occupazione militare. Il diritto internazionale parla chiaro. Le fonti giuridiche internazionali che sanciscono l'appartenenza del Donbass all'Ucraina si fondano su una serie di trattati e accordi che delineano i confini territoriali post-sovietici e confermano l'integrità dello Stato ucraino. L'Accordo di Belaveža dell'8 dicembre 1991, firmato da Bielorussia, Russia e Ucraina, ha sancito la dissoluzione dell'Urss e la nascita della Comunità degli Stati indipendenti, riconoscendo i confini delle repubbliche, compresa l’Ucraina. Il Memorandum di Budapest del 1994 ha visto l’Ucraina rinunciare al proprio arsenale nucleare in cambio di garanzie di sicurezza che includono l'integrità territoriale. Con l'annessione della Crimea nel 2014 e la guerra nel Donbass, Mosca ha violato queste promesse. Sono principi sanciti anche da una risoluzione dell'Assemblea generale Onu del 2014, secondo cui «nessuna acquisizione territoriale risultante dalla minaccia o dall'uso della forza può essere riconosciuta come legittima». Giubileo dei movimenti popolari, Leone XIV in difesa dei migranti: «Trattati come spazzatura» L’idea di "negoziare la pace" consegnando territori è non solo moralmente insostenibile, ma anche giuridicamente inammissibile. Non si può scambiare la fine dei bombardamenti con un pezzo di Stato, come se il diritto fosse una merce da risarcire. L'Europa, nata dal rifiuto della guerra come strumento politico, non può accettare che la pace si costruisca sulla rinuncia del diritto. L'Ue, con il piano in dodici punti concordato con Kiev, riafferma il principio dell'integrità territoriale come fondamento non negoziabile. Ed è una scelta non solo politica, ma di civiltà giuridica. Salvare il Donbass non significa solo difendere un territorio, ma preservare la memoria dei popoli dalla menzogna, dall'arbitrio.