Matteo Renzi dice che bisogna combattere il reddito di cittadinanza perché in Italia «la gente deve rischiare, provare, correre, giocarsela». Insomma, «deve soffrire». Sorvoliamo sul fatto che le esperienze lavorative del leader di Italia viva non vanno oltre l’aziendina di famiglia, la politica e un po’ di consulenze internazionali. Le parole di Renzi piacciono a imprenditori convinti di aver sudato ogni euro, anche se magari guadagnato nell’azienda fondata dal nonno. Mentre marcano una distanza siderale da pezzi di paese che vivono nell’incertezza esistenziale. C’è qualcosa di più profondo, però, di un mero calcolo di consenso.

Nel libro La tirannia del merito (Feltrinelli), il filosofo di Harvard Michael Sandel spiega come l’ideologia del merito abbia corrotto la cultura progressista, trasformandola nel suo opposto. In una società aristocratica, il povero soffre per la sfortuna che lo ha fatto nascere in fondo alla scala sociale, ma non c’è colpa in questo destino. Gli è andata male. Nella società meritocratica, profetizzata da Renzi, se rimani povero è perché hai fallito, perché non ti sei applicato, perché è giusto così, insomma, visto che altri erano più bravi di te. Non solo devi rimanere in fondo, ma anche insultarti ogni volta che ti guardi allo specchio: ho fallito e me lo merito. La meritocrazia darwiniana serve a giustificare la disuguaglianza, magari a redistribuirne il peso tra tizio e caio, ma non a ridurla o renderla meno dolorosa. Anzi, «la gente deve soffrire».

Dietro il ragionamento di Renzi c’è l’idea che chi rischia e ha successo si meriti ogni centesimo del benessere che ottiene. Ma anche il talento, la determinazione e l’autostima dipendono da variabili esterne: la famiglia in cui sei nato, le scuole elementari che hai frequentato, le opportunità del territorio nel quale sei cresciuto, gli incontri che hai avuto occasione di fare. Se prendiamo sul serio il discorso meritocratico e cerchiamo di attribuire il merito a chi lo ha generato, al singolo individuo resta ben poco. Quanto al talento innato, non siamo certo noi a stabilire come la società valuta certe capacità: oggi un pittore di affreschi farebbe la fame, mentre chi sa usare bene i filtri di Instagram si arricchisce. Forse che uno è un fallito e l’altro un genio? Il successo nel quadro della meritocrazia è insomma poco più che la vittoria a una lotteria. E nessuno guarda ai possessori di biglietti vincenti con reverenza e ammirazione, al massimo un po’ di invidia.

Il problema, insomma, non è che Renzi paia poco titolato a fare il profeta del merito, ma che in tanti nel centrosinistra la pensino come lui. È ora di ammettere che dare uguaglianza di opportunità senza preoccuparsi poi di cosa succede a chi quelle opportunità non riesce a sfruttarle è un approccio di destra e miope, che ha generato i tanti Donald Trump e Matteo Salvini, gli unici a parlare ai tanti perdenti che poi, alle elezioni, votano come e più dei vincenti.

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