La riforma del catasto può essere un’opportunità per rendere l’Italia un paese più moderno e più giusto. Senza alzare le tasse, in media. Ma facendo pagare in modo corretto chi, finora, ha ricevuto indebiti vantaggi. E facendo pagare meno a chi, invece, da decenni sta subendo un’ingiustizia. La maggioranza degli italiani ci guadagnerebbe.

Il sistema di classificazione su cui si basa il nostro catasto risale ai tempi del fascismo. La legge istitutiva fu approvata nel 1939, il decreto di attuazione arrivò nel 1949 e la vera e propria entrata in vigore è del 1962. Nel frattempo, c’era stato il miracolo economico. Già allora le rendite catastali erano disallineate rispetto alla realtà socio-economica del paese. La successiva – e unica – rivalutazione avvenne nel 1989.

La legge di allora prevedeva anche una revisione periodica ogni 10 anni, che però non è mai stata fatta (salvo un aumento piatto del 5 per cento nel 1996-97 e qualche «riclassamento» di singoli comuni). In sostanza, la classificazione e i criteri si basano ancora sul tessuto urbanistico degli anni Trenta, e i valori imputati sono quelli di fine anni Ottanta.

Per chi sarebbe questa riforma? Sulla prima casa le tasse non si pagano più. Si pagano sulle seconde case (e terze, quarte, eccetera).

Spesso sono immobili in piccoli centri o in periferia, sui quali, a parità di gettito, si pagherebbe di meno. Altre volte, sono case nei centri storici delle città, che vengono date in affitto e b&b: queste pagherebbero di più.

Sarebbe un’operazione di redistribuzione da chi ha molto a chi ha poco, da chi finora ha pagato meno del dovuto a chi ha ingiustamente pagato di più, da chi peraltro si è avvantaggiato di un regime eccezionalmente di favore per la sua rendita immobiliare (sugli affitti e i b&b si paga una flat tax, indipendentemente dal numero di case). Scoraggerebbe un po’ la rendita, favorirebbe quindi anche investimenti più produttivi. E la sinistra, che sta cercando da anni di uscire dal recinto delle ztl, dovrebbe farla propria.

I valori catastali sono poi utilizzati per determinare l’Isee, su cui si basa buona parte del nostro sistema di welfare. Chi ha una casa in periferia o nei piccoli centri, con l’attuale sistema ha un valore più alto della realtà e quindi riceve meno di quanto avrebbe diritto. Chi abita nei centri storici delle grandi città riceve invece di più. Questo sempre a «parità di impatto», naturalmente (ma è semplice: basta modificare il peso del coefficiente nel calcolo dell’Isee). I valori catastali sono infine adoperati per le tasse sulle eredità, peraltro da noi bassissime. Anche qui, identiche ingiustizie.

Da anni l’Ocse e l’Unione europea ci chiedono di riformare il nostro antiquato catasto. Monti aveva avviato la revisione, poi proseguita con il governo Letta.

Nel febbraio 2014 il parlamento approvò la legge delega, ma l’allora premier Renzi alla fine decise di non farne più nulla. Imitando Berlusconi, abolì semplicemente le tasse sulla prima casa. Tutti contenti, a danno dei conti pubblici. E senza sanare nessuna ingiustizia.

Una vicenda che esemplifica al meglio la stagione di demagogia facilona da cui veniamo, e che ha accentuato i nostri mali storici. E dalla quale a quanto pare fatichiamo a uscire.

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