Non chiamiamolo finanziamento pubblico. Quello a cui il Movimento 5 stelle stelle sta scegliendo (finalmente!) di aderire è un sistema ibrido, che per certi aspetti mette insieme il peggio delle logiche del finanziamento privato e di quelle del finanziamento pubblico.

Infatti, è l’esito dell’ondata populista seguita alle elezioni del 2013: la legge è stata approvata dal governo Letta dietro forte spinta dell’allora neosegretario del Pd Matteo Renzi, che a quel tempo cavalcava lo slogan antipolitico dell’abolizione del finanziamento pubblico, inseguendo proprio i Cinque stelle.

Il 2 per mille è un finanziamento che i privati cittadini scelgono di dare ai partiti, in base alle proprie disponibilità (la dichiarazione dei redditi): facendoselo pagare però dallo stato, ovvero da tutti noi.

Alcuni partiti ricevono infatti un finanziamento proporzionalmente maggiore rispetto al numero di sostenitori: tendenzialmente, coloro che rappresentano meglio gli interessi dei redditi più alti possono ottenere dallo stato più fondi di quelli che dovrebbero avere in base al principio democratico “una testa, un voto”. A giudicare dai dati sull’andamento del 2 per mille, sembra che sia proprio così.

Nel 2020, per esempio, il partito di gran lunga con i maggiori finanziamenti pro capite è risultato Azione di Carlo Calenda, 24,4 euro a testa; ma ha solo 29.734 contribuenti.

Rifondazione comunista ha invece 53.800 contribuenti, ma i suoi sostenitori sono quelli con i redditi più bassi (coerentemente con il posizionamento politico di questa forza): donano 10,6 euro a testa.

Di conseguenza, Rifondazione riceve dallo stato meno fondi di Azione (571.000 euro contro 726.000), pur avendo 24.066 finanziatori in più, quasi il doppio. Per lo stato italiano, i sostenitori di Rifondazione valgono meno di quelli di Azione. È giusto? È coerente con i principi di una democrazia liberale? Non lo è.

In una democrazia liberale, il finanziamento privato è ovviamente consentito, ma non può andare a carico della fiscalità generale: e deve essere ben regolato, trasparente e limitato nell’ammontare.

In aggiunta, deve essere previsto un finanziamento pubblico, ma elargito in base ai voti (ogni cittadino ha uguale diritto di concorrere alla vita pubblica). E a condizioni di effettivo rispetto della democrazia interna dei partiti, a differenza di adesso.

Di più: l’attuale 2 per mille oggi raccoglie meno di 19 milioni di euro, dal 3,3 per cento dei contribuenti (meno di quanto i partiti ricevono dai contributi volontari degli eletti).

Il finanziamento pubblico, quello vero, deve consentire ai partiti di avere le risorse per fare politica in modo indipendente dai potentati economici, come troppo spesso non avviene in Italia, e anche dai loro rappresentanti nelle istituzioni (sono due cose diverse); e dovrebbe obbligarli a congressi regolari e al rispetto dei diritti degli iscritti. Sarebbe un sistema simile a quello che funziona bene, da decenni, in Germania.

Se vogliamo farla finita per davvero con la stagione del populismo, forse questa è una buona occasione. E se vogliamo dare un senso all’ultimo anno di legislatura, questa sarebbe una delle riforme da fare. Migliorerebbe la qualità della nostra democrazia, della nostra vita pubblica e quindi anche della nostra classe politica.

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