Il primo anno di università telematica di massa ha piegato gli entusiasti apostoli del seminuovo educativo (quelli che avrebbero riempito la Cina di cabine telefoniche per dotarla di una “moderna infrastruttura” anziché investire sul 5G). Una telecamera, un software, un mezzobusto e una chat non sono uguali all’insegnante, la bambina, la penna e il libro di Malala. Perché anziché cambiare il mondo ne consacrano le diseguaglianze.

Chi s’era illuso che regalare titoli di pari valore agli studenti dell’aula e quelli del Web favorisse gli studenti lavoratori, ha toccato con mano il classismo crudele di un sistema che vende illusioni telematiche, confezionate da una pubblicità martellante, ai più demuniti e conserva intatto il diritto ad una formazione alta a chi può scegliere università con biblioteche, laboratori e aule ben manutenute.

Un classismo che scarica sulla società la sua contraddizione: perché poi spedisce psicologi formati a suon di video a fare il perite del tribunale dei minori, e perde la mente da cui poteva uscire una cura o una idea necessaria al mondo e che invece è rimasta esclusa dall’università per un censo famigliare travolto dalla pandemia.

Adesso, alle soglie della transizione dalla catastrofe alla movimentazione delle sue macerie, bisogna decidere se o cosa fare per ridurre quel danno. E su una cosa bisognerebbe almeno interrogarsi: restituire agli studenti che le hanno pagate le tasse versate in quest’anno 2020 e risarcire i maturandi azzerando a tutti le tasse universitaria del prossimo anno, e coprendo agli atenei il mancato gettito.

Non è una idea originale: negli Stati Uniti passa dal prolungamento dei prestiti d’onore e in altri paesi dalla contabilizzazione di lezioni integrative (de visu...) fra i ristori. E da noi sarebbe facilmente spiegabile come investimento, quale è. I nostri (pochi) universitari hanno pagato per la lectio e hanno avuto dei meet. Anziché domandare hanno chattato coi professori.

Hanno certificato la loro condizione sociale con lo sfondo dei loro esami. E allora, quando si ripaleserà l’abisso etico che separa i corsi “ortodossi” (come li chiama il ministro Manfredi) e quelli online, sarà giusto dire che lo Stato crede a quel “diritto” di cui la costituzione lo fa garante.

Ed è giusto includere in un beneficio che non costa più di 1,5 miliardi chi, nel momento in cui doveva orientarsi, è dovuto tornare alla didattica a distanza e dunque rischia di essere disilluso dal continuare un percorso di studi di cui il paese ha bisogno per uscire dalla crisi.

Un atto che rimetterebbe alla pari i figli di chi ha visto crollare le proprie possibilità di lavoro non per sua inedia e i figli di coloro che sono stati garantiti sul piano stipendiale. E che potrebbe avere qualche effetto sia sul numero troppo basso di laureati (fattore oggettivo di emigrazione delle menti), sia in materia di lotta alla discriminazione di genere (perché un maschio che non va all’università perde molto, una donna che vi deve rinunciare perde molto di più i termini di opportunità di affermazione e tutela di sé), sia in materia di ripresa economica (perché non ci sarà crescita senza crescita del sapere in tutte le sue dimensioni e sfumature).

Per evitare l’odiosità di un beneficio che darebbe vantaggi a chi non ne ha bisogno si potrebbe ricorrere ad un tetto reddituale; oppure fare un appello alla responsabilità dei singoli, per nessuno impedisce a chi potrebbe comunque pagare quella tassa di iscrizione di versarla a titolo di donazione. Per rieducare a una generosità senza la quale il sistema sarà condannato a veder partire alcuni dei migliori e tanti dei coraggiosi.

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