Nell’indifferenza generale il governo ha deciso di spostare all’autunno le elezioni amministrative nelle grandi città, previste per questa primavera. Invece di rinviarle di qualche settimana, quando la situazione pandemica tra caldo e vaccini non dovrebbe più creare grande preoccupazione, sono state spostate di sei mesi.

Sia la decisione stessa del governo che, ancor di più, la totale irrilevanza data a questa scelta da parte dell’opinione pubblica, sollevano un interrogativo sulla centralità del momento elettorale nella vita pubblica del nostro paese. Interrogativo che diventa ancora più rilevante se lo si associa alla decisione, e alle motivazioni addotte, con le quali Sergio Mattarella ha respinto le ipotesi dello scioglimento delle Camere.

Le parole del presidente della Repubblica, preoccupato del quadro sanitario, suonavano però eccessive rispetto alla situazione. Il piano vaccinale era partito meglio di ogni altro paese - nonostante politici e commentatori negassero una realtà fattuale incontestabile - e la curva dei contagi della seconda ondata era più contenuta a confronto di quanto accadeva in Europa.

Gli altri votano

Altri paesi non hanno avuto la stessa sensibilità pur navigando anch’essi in cattive acque. Ieri, infatti, si è votato in due Land tedeschi per le elezioni regionali, coinvolgendo 15 milioni di persone, e lo stesso si è incominciato a fare in Olanda per il rinnovo del parlamento.

Proprio per limitare i rischi di una accelerazione della pandemia che in Olanda ha un ritmo di trasmissione superiore al nostro - negli ultimi quindici giorni la percentuale di casi per milione è di 66mila contagiati contro i nostri 53mila - è stato deciso di diluire le votazioni lungo tre giorni, dal 15 al 17.  Quando si vuole mantenere fermo un principio, le soluzioni si trovano. In Italia invece abbiamo considerato le elezioni un optional: si possono fare, ma anche no.

Anche se questo ragionamento può apparire forzato, non possiamo far finta di nulla. Perché esiste una tensione in sé tra i provvedimenti per contenere la pandemia e la vita democratica. Già al momento del primo lockdown emersero perplessità su misure così limitative delle libertà personali. 

Il limite ai limiti

Le restrizioni ad alcuni diritti fondamentali - libera circolazione, culto, riunione, per fare alcuni esempi - sono state considerate necessarie per fronteggiare una situazione improvvisa, imprevista e devastante. Hanno creato quello che il giurista Tomaso Epidendio ha definito uno “stato di eccezione debole”. Nella primavera scorsa le restrizioni alle libertà costituzionalmente garantite sono considerate accettabili perché dovevano essere un unicum, qualcosa di circoscritto nel tempo (e nello spazio).

Dopo un anno, siamo allo stesso punto. Ovviamente, il “liberi tutti” può essere invocato solo da un incosciente. Tuttavia, affiora il rischio di una assuefazione alla compressione di diritti fondamentali: dopo che dei limiti sono stati introdotti, tolti e reintrodotti più volte, si arriva ad una “normalità della eccezione” che finisce per legittimare ogni eccezione rispetto a quanto garantito dalla costituzione.

Vale allora riproporre gli interrogativi sollevati allora sulla possibile convivenza tra democrazia ed epidemia, tra “contagio e libertà” (dal titolo delle riflessioni scritte con Nadia Urbinati, Laterza editore, 2020.)  Dove deve arrestarsi lo Stato nell’imporci norme per la nostra salvezza, quanto queste investono direttamente il nostro ambito privato, i nostri affetti, il nostro lavoro. Quanto possono intrudere la nostra vita?

Delegare tutto allo Stato

Se deleghiamo allo Stato tutto, a cominciare dalla nostra vita fisica, diventa poi difficile limitare il suo intervento ed eventualmente chiedere il rispetto dei diritti quando viene invocato un bene superiore.

La limitazione ai diritti, comune a molti altri paesi ma non al punto da sospendere le elezioni, cala in un sistema politico come il nostro che ha una cultura politica diversa: altrove nessuno ha mai pensato di chiedere i “pieni poteri”.

Se un politico del genere, Matteo Salvini per chi se lo fosse dimenticato, fosse oggi al posto di Mario Draghi ci sentiremmo ben più a disagio – per usare un eufemismo - per le restrizioni oggi adottate. Ma chi ci garantisce che, con governanti al mojito, in una ipotetica situazione di fortissima tensione sociale provocata dalla crisi economica, non venga invocata l’adozione di misure restrittive delle libertà, di nuovo in base all’articolo16 della Costituzione che, oltre ad interventi straordinari per la protezione della salute, cita anche la “sicurezza”.

Per questo l’indifferenza che ha accolto la rinuncia ad esercitare il diritto di voto alle amministrative e la ricezione passiva della ferma opposizione del Presidente a nuove elezioni politiche in tempi rapidi, lascia perplessi. Rimandare la democrazia a tempi migliori da la sensazione che la voce dei cittadini sai un optional, e bastino gli ottimati a risolvere tutto.

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