Roma non esiste. O ce ne sono troppe. Chiunque abbia a cuore il destino di questa città che è un eufemismo definire plurale non può che partire da qui.

Basta affacciarsi tra le centinaia di carte che il blog mapparoma.info continua a collezionare sulle 155 zone urbanistiche della città (o sfogliare il libro pubblicato da Donzelli che raccoglie le principali con il titolo -parziale- Le mappe della disuguaglianza) per rendersi conto che tutto - demografia e servizi, consumo di suolo e offerta culturale, dimensioni familiari e presenza straniera, competenze digitali e comportamenti elettorali, la rete dei trasporti e i valori immobiliari, perfino la difforme distribuzione dei celibi e delle nubili- frantuma la città in un caleidoscopio irregolare che solo per convenzione -fa notare Walter Tocci- “chiamiamo ancora Roma”, nobilitando con un prestigioso nome storico una conurbazione che ne ha ormai modificato la geografia e la cosiddetta anima.

Perfino l’antica distinzione tra centro e periferia, bussola di annose discussioni e di politiche generose, appare inutilizzabile perché processi sociali e mutazioni simboliche hanno dissolto le due opposte categorie.

Se è vero che in Italia -si perdoni la parafrasi blasfema- tutti i centri storici si assomigliano (ovunque un Duomo, una Piazza, una Fontana) e ogni periferia è periferia a modo suo, a Roma il paradosso si incarna in centinaia di zone speciali, ognuna con le sue caratteristiche, i suoi problemi, gli adattamenti evolutivi e- in qualche caso- le soluzioni.

Detto più banalmente, una fermata della metropolitana, un centro commerciale, una parrocchia attiva, una biblioteca o un teatro funzionanti (tutte cose rare, nella vastità di Roma), scavano differenze che negli anni diventano estreme e irreparabili.

Sono processi in corso da decenni che le politiche migliori hanno rallentato ma non possono arrestare. Immaginare una politica che le governi tutte produce solo fallimenti e frustrazione. Che fare allora?

Continuare a scommettere sulla possibilità di riannodare un processo di identificazione cittadina a partire dal miracolo di una figura o magari un progetto vagamente unificanti?

Un processo che non si intende sminuire definendolo essenzialmente simbolico, fondato su valori che la città è forse ancora in grado di generare. Senza contare che -detto non per enfasi campanilistica ma per ragioni di Salute Pubblica- c’è una Nazione che ha bisogno della Capitale. O invece adeguarsi al destino che ha frantumato Roma, decentrare tutto il possibile magari senza arrendersi alla sorte diseguale dei diversi quartieri, provando a estendere le buone pratiche che da qualche parte si sono affacciate e che già ora amministrano qualcosa “grande come una città", per citare l’esempio del Terzo Municipio (che non è solo una metafora poetica: stiamo parlando di più di 200.000 residenti). Per questa via diventerebbe fruttuoso il ritorno ai quartieri che la pandemia con i confinamenti e lo smart working ha improvvisamente provocato.

Non sono solo alternative astratte, utili a stimolare un pensiero che latita: sono ipotesi di governo entrambe meritevoli di essere coraggiosamente esplorate, con tutte le possibili traduzioni istituzionali. Anche se la natura della città e il suo quotidiano uso pubblico consente forse una considerazione diversa, più pragmatica e palese.

La vita dei romani sembra ruotare intorno a differenti centri. A parte quello eterno che si attorciglia intorno al Campidoglio, pezzi enormi della città hanno eletto i propri. Come vertici di spicchi giganteschi che sezionano Roma in modo più significativo della tradizionale distinzione centro-periferia. Sono i nodi del trasporto, i luoghi del commercio (alternativo alla concentrazione del Tridente), delle multisale cinematografiche (urbane, non extraurbane), della movida (come San Lorenzo, Ponte Milvio, il Pigneto), delle grandi librerie (via Appia Nuova, viale Marconi, viale Libia, Piazza Cola di Rienzo). Incroci trafficati e popolari, densi di senso urbano e di socialità non riconosciuta.            

Per evitare di enfatizzare un Centro dove già troppo si concentra e non arrendersi alla dispersione della Città Gigante, si potrebbe ripartire da questi luoghi, dai piccoli centri quotidiani che tanto piccoli non sono. Come a ricucire la città pedinando i suoi abitanti, investendo in tutto quello che favorisce un senso di prossimità e condivisione (i trasporti, anzitutto i trasporti!). Rispettando la complessità della città senza arrendersi alla sua dissoluzione.

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