Da alcuni giorni si parla del fatto che il sindaco Roberto Gualtieri comunicherà entro la fine di marzo alla Regione uno o due siti per la realizzazione di discariche per la città di Roma. I siti identificati dall’amministrazione capitolina sono situati per lo più al di fuori del Raccordo anulare, per larga parte in zone periferiche nel quadrante Sud e Ovest della Capitale. Fa eccezione il lembo di Municipio VI (nel quadrante Est), collocato a pochi passi da Tivoli, a proposito del quale ha scritto un documentato articolo Nello Trocchia qui su Domani.

L’individuazione di queste aree si rifà ad una mappatura effettuata diversi anni fa. Città metropolitana, durante l’amministrazione Raggi, non ha mai portato a compimento l’indicazione delle aree idonee e non idonee aggiornando il Piano territoriale provinciale, come previsto dalla legislazione nazionale.

In parte si tratta di siti che già ospitano varie tipologie di rifiuti. In questo caso la modalità utilizzata sarebbe quella di cambiare la destinazione d'uso di un determinato sito - magari già ospitante scarti prodotti da lavori di costruzione o demolizione, i cosiddetti “inerti” - per convertirlo ai rifiuti urbani. Tra l’altro non dobbiamo mai dimenticare come alcune di queste aree hanno già pagato molto in termini di vivibilità e meritano tutti i nostri sforzi per essere preservate.

Ma il tema centrale è che questo modello di discarica, per come lo pensiamo solitamente, è del tutto inadeguato a far fronte al problema.

Il sito

Indicare un sito unico per una città di tre milioni di abitanti vorrebbe dire produrre effetti troppo impattanti per l’ambiente e la salute dei cittadini. Oltretutto ci troveremmo in contrasto con i principi dell’economia circolare e con la gerarchia dei trattamenti, come definita dall’Unione europea e recepita nella normativa nazionale e regionale. Secondo le norme Ue, infatti, il ricorso in discarica dovrebbe rappresentare l’ultima risorsa all’interno di una gestione sostenibile dei rifiuti.

La nostra proposta è quella di un nuovo modello, basato su impianti di piccola taglia, che vengano gestiti dal pubblico e non dai grandi player dei rifiuti che troppo spesso lucrano su quello che deve essere considerato un bene comune.

Partiamo da una efficace separazione dell’organico, che dimezzerebbe la quantità di indifferenziato. Per chiudere il ciclo dovremmo avere circa venti impianti di compostaggio di medio-piccole dimensioni (massimo 20.000 tonnellate), da collocare intorno al Raccordo, affiancati da impianti di compostaggio di piccola taglia. Si ridurrebbero tanto l’impatto sull’ambiente che le controversie territoriali, con impianti che potremmo definire finalmente compatibili con l’ambiente e oltretutto più facili da localizzare.

L’indifferenziato, dimezzato nella quantità e con minori problemi dal punto di vista dell’odore vedrebbe ridursi lo smaltimento in discarica a circa 350.000 tonnellate annue (a fronte delle attuali 600.000), grazie al trattamento e recupero di materie prime seconde. In questo modo si eviterebbe anche di produrre combustibile, anche dato che la dismissione per l’incenerimento chiesta anche dal Pacchetto Economia Circolare Ue del 2018.

Come risultato, avremmo sei impianti di recupero materia a sostituire gli attuali impianti di trattamento meccanico biologico, con una relativa mini-discarica di servizio per ciascuno di essi.

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