L’accordo Ue sul salario minimo è un passo molto importante e un forte stimolo per costruire un patto sociale per il lavoro, i salari e la produttività. 

L’Italia è l’unico paese europeo in cui tra il 1990 e il 2020 i salari sono diminuiti in termini reali. Ha pesato sicuramente la debole dinamica della produttività, anche se secondo Istat tra il 1995 e il 2020 la produttività del lavoro è, sia pur di poco, aumentata (+0,4 per cento annuo).

Decenni di bassi investimenti e di precarizzazione del lavoro e indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori hanno indotto una domanda di lavoro poco qualificato e hanno portato buona parte del sistema imprenditoriale ad imboccare una via “bassa” dello sviluppo, anziché puntare su una via “alta” basata sulla competitività, l’innovazione, l’investimento sul capitale umano e la qualità del lavoro.  
L’elevatissimo cuneo fiscale certamente non ha aiutato. Nel 2021 l’Italia era al quinto posto tra i paesi Ocse per la differenza tra costo del lavoro e buste paga nette.

Questa condizione, che dura da molti anni, ha portato molte imprese a cercare tutte le scorciatoie possibili e immaginabili per comprimere il costo del lavoro e i salari netti. 
La proliferazione dei contratti di lavoro - arrivati a 992 a fine 2021 secondo il Cnel, in gran parte contratti “pirata” assai poco rappresentativi - ha legittimato salari da fame e ha contribuito alla diffusione di milioni di lavori “poveri”, con livelli retributivi vergognosamente bassi.

Oggi in Italia la percentuale di “working poors” è nettamente superiore alla media europea, con una forte concentrazione tra i giovani, le donne e nel Mezzogiorno. 
Da ultimo, l’impennata dell’inflazione, che a maggio ha toccato il 6,9 per cento, sta ulteriormente erodendo il potere d’acquisto delle retribuzioni, in un contesto in cui, secondo il Cnel, sono scaduti quasi il 63 per cento dei contratti collettivi di lavoro per oltre 7,7 milioni di dipendenti, il 59 per cento del totale.

L’aumento dei prezzi, spinto dal caro bollette, sta allargando le disuguaglianze, perché non colpisce tutti allo stesso modo: il peso delle spese energetiche sui bilanci delle famiglie più povere è più che doppio rispetto a quelle maggiormente benestanti. 
Tutto questo rende più che mai urgente un nuovo patto sociale, da incardinare su alcune scelte prioritarie. 

Le quattro priorità

Primo. Il salario minimo. È in vigore in 21 paesi Ue su 27. Va introdotto anche in Italia, valorizzando l’autonomia negoziale delle parti sociali e facendo riferimento, come propone il ministro del Lavoro Andrea Orlando, ai trattamenti economici complessivi (Tec) dei contratti di lavoro maggiormente rappresentativi.

Si potrebbe inoltre prevedere la definizione di livelli salariali minimi ad hoc per i settori in cui è più elevata l’incidenza della povertà lavorativa e più debole la contrattazione collettiva. In questo modo si toglierebbe spazio ai contratti pirata e si affronterebbe efficacemente il problema del lavoro povero. 
Secondo. Il rinnovo dei contratti di lavoro scaduti. Va accelerato, perché è la contrattazione lo strumento decisivo per recuperare il potere d’acquisto delle retribuzioni senza innescare una spirale salari-prezzi.

In una condizione difficile come quella che stiamo attraversando, è particolarmente necessaria una forte assunzione di responsabilità da parte dei datori di lavoro. Il governo dovrebbe accompagnare e favorire questo processo con un alleggerimento del carico fiscale sul lavoro. 
Terzo. Il cuneo fiscale. La legge di bilancio 2022 ha previsto - solo per quest’anno - un taglio di 1,5 miliardi dei contributi sociali a carico dei lavoratori con retribuzioni lorde fino a 35 mila euro.

Questa misura va di molto rafforzata e resa permanente. Gli spazi per intervenire ci sono: la crescita delle entrate tributarie, a partire dall’IVA, è molto forte, ben superiore all’aumento del Pil nominale.

È l’effetto di un importante recupero di evasione fiscale. Destinare queste risorse alla riduzione progressiva del cuneo fiscale, a partire da quello che grava sulle retribuzioni più basse, sarebbe una scelta molto efficace e condivisibile. 
Quarto (ma non certo ultimo, in ordine di importanza), la produttività. I progetti e le riforme del Pnrr rappresentano un’occasione storica per lasciarci alle spalle la stagione della via “bassa” dello sviluppo (anzi: della stagnazione) e scegliere un percorso radicalmente diverso. Dinamico, inclusivo, sostenibile.

Nel Piano ci sono scelte decisive per un salto nella produttività totale dei fattori: gli investimenti sul capitale umano, la digitalizzazione e lo sviluppo sostenibile, le riforme della pubblica amministrazione e della giustizia.

Siamo ad un passaggio delicato nel percorso di “messa a terra” del Piano. Il Parlamento sta esaminando alcune riforme di fondamentale importanza, dalla legge sulla concorrenza alla delega fiscale.

I bandi per i progetti del Piano vanno avanti, ma alcuni nodi - dal caro materiali nell’edilizia alla debole capacità realizzativa di molti soggetti attuatori - stanno venendo al pettine.

La condivisione del governo con le parti sociali di una serie di scelte-chiave rappresenterebbe un segnale politico molto forte di assunzione collettiva di responsabilità verso una sfida decisiva per il futuro del Paese.

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