Negli ultimi anni si registrano in misura crescente episodi in cui anche i minori d’età si rendono protagonisti e partecipi di gravi reati di matrice omofoba. Si tratta, sovente, di delitti commessi contro la persona che arrivano, nei casi più gravi, ad aggressioni violente con lesioni gravi se non gravissime, solitamente in concorso e da parte di gruppi di ragazzi che agiscono in branco.

Ciò che costituisce un vero e proprio stillicidio o una sorta di brodo di coltura, per diffusione e frequenza, sono tuttavia fatti e circostanze espressioni del cosiddetto bullismo omofobico che, com’è noto, si manifesta prevalentemente in modalità da cyberbullismo, che si estrinseca in insulti verbali, ingiurie ed epiteti offensivi a sfondo sessuale, intimidazioni o minacce di violenza fisica vera e propria, basati su luoghi comuni e stereotipi di intolleranza anti-Lgbt.

Come dimostra anche la letteratura scientifica in materia, è sempre più esteso il ricorso, da parte di giovani e giovanissimi, a un linguaggio omofobico, che i medesimi dichiarano di sentire abitualmente da parte di amici e conoscenti, anche adulti, e in molti degli ambienti da loro frequentati.

Il tradizionale fenomeno del bullismo, che colpisce l’identità della persona, è ormai di per sé considerato una «patologia relazionale» radicata tra i ragazzi.

Ciò accade perché è ancora gravemente diffusa la condivisione di stereotipi e pregiudizi nei confronti delle persone Lgbt, o comunque la colpevole e silenziosa inazione da parte di genitori, educatori, insegnanti e non ultimi operatori del diritto, che non comprendono gli effetti di questo tipo di bullismo e sottovalutano la situazione.

Non c’è dubbio che, oltre alle iniziative che riguardano il legislatore sia nazionale che regionale e al dibattito correlato, uno degli aspetti più rilevanti legati all’affermazione del discorso pubblico sull’omofobia anche nel nostro Paese riguarda la progressiva conoscenza e l’emersione dei dati e delle informazioni al riguardo.

Dal punto di vista dell’analisi giuridica, la cosiddetta omofobia della sfera istituzionale non può non essere rilevata a partire dalla naturalizzazione dell’eterosessualità insita nel nostro diritto di famiglia e, a tutt’oggi, nella mancanza di leggi atte a contrastare l’omofobia diffusa nella società e – pensando al mio ambito di esperienza relativo alle adozioni coparentali – al mancato riconoscimento delle famiglie omogenitoriali.

Affrontare un tema come questo significa perciò porsi all’interno di una dialettica normativa e culturale tenendo conto delle fratture provocate, spesso molto profonde, in cui, per esempio, si ritiene di contrapporre minoranze marginalizzate a una certa sensibilità comune.

Viviamo in una società che ufficialmente si riconosce in un principio di pari opportunità e non-discriminazione e, in termini generali, la stragrande maggioranza dei nostri concittadini rigettano il principio che si possa legittimamente discriminare una persona sulla base del suo orientamento sessuale.

Tuttavia, nell’interesse prioritario delle persone minori di età, tutto ciò non può non avere una valenza in termini educativi, laddove si designano come inaccettabili espressioni di omofobia che prima passavano inosservate o peggio erano oggetto di consenso, con un auspicabile ribaltamento, politico ed epistemologico, che porti a concentrarsi sulla questione omofobica non solo agita, con tutte le aggravanti discriminatorie, ma soprattutto percepita nella sua pericolosità da parte di tutti.

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