Il giudice dell’udienza preliminare di Palermo ha rinviato a giudizio l’ex ministro dell’Interno, Matteo Salvini, per sequestro di persona plurimo e rifiuto di atti d’ufficio riguardo al caso della nave umanitaria Open Arms. Salvini dovrà rispondere dell’accusa di non aver indicato un porto sicuro, lasciando in mare i 147 migranti salvati dalla imbarcazione dell’Ong spagnola, nell’agosto del 2019.

La difesa di Salvini

La linea di difesa di Giulia Bongiorno, avvocato del leader leghista, ha fatto leva su alcuni argomenti già prospettati prima dell’autorizzazione a procedere da parte del Senato. Tra gli altri, la competenza a offrire un porto sicuro sarebbe spettata alla Spagna, perché lo stato di bandiera della nave di salvataggio coinciderebbe con quello di “primo contatto” e, come tale, dovrebbe pure fornire un porto sicuro (POS). Ma questo principio non è sancito da nessuna delle Convenzioni sul diritto del mare.

Lo Stato, qualunque esso sia, che per primo ha notizia di un problema in mare contatta quello che gestisce la regione Sar (ricerca e salvataggio) dove è avvenuta la criticità, ed è quest’ultimo che deve gestire l’evento.

Secondo le linee guida dell’Imo, organizzazione marittima internazionale, le persone soccorse devono “raggiungere quanto prima un posto sicuro”, con “il minimo sacrificio possibile” per la nave soccorritrice.

Anche per questo motivo l’accusa di Salvini alla Open Arms - aver rifiutato l’offerta di sbarco da parte della Spagna - è infondata: i porti spagnoli erano troppo lontani.

Secondo la difesa, Salvini non aveva competenza a consentire l’entrata in porto, che spettava invece al «Centro nazionale di coordinamento del soccorso marittimo (IMRCC), articolazione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti».

Anche questa affermazione non è corretta: la richiesta di un POS va comunque inoltrata al Viminale (direttiva Sop 009/15 del Comando generale del Corpo delle Capitanerie di Porto – Guardia Costiera), e da ciò discende la responsabilità del titolare del dicastero.

Negli atti difensivi si afferma, inoltre, che l’obbligo di sbarco immediato non avrebbe potuto determinarsi «per effetto della sola richiesta di POS da parte della nave Open Arms, visto che il presidente del Consiglio allora in carica aveva avviato la procedura di redistribuzione dei migranti in sede europea», e tali trattative costituirebbero una fase necessaria prima dello sbarco. Ma il criterio guida per il soccorso è che lo sbarco dev’essere quanto più sollecito.

La difesa ha anche sostenuto che la Open Arms costituisse un «luogo adeguato in relazione alle esigenze di sicurezza e alle necessità primarie dei migranti». Ma ai sensi della Convenzione internazionale di Amburgo del 1979 (Convenzione Sar), nonché delle citate linee guida dell’Imo, il salvataggio si conclude solo con lo sbarco a terra, in un luogo sicuro.

Pure la nave soccorritrice può esserlo, ma solo in via provvisoria: lo Stato costiero deve adoperarsi per garantire «il diritto universalmente riconosciuto di essere condotti sulla terraferma» (caso Cap Anamur, 2009).

Le differenze tra Gregoretti e Open Arms

Il rinvio a giudizio per il caso Open Arms va in senso opposto alla richiesta di «non luogo a procedere perché il fatto non sussiste» da parte della procura di Catania per il caso Gregoretti, di qualche giorno fa. Secondo Salvini le due vicende sarebbero sovrapponibili. Ma le cose non stanno in questo modo.

Si è detto, ad esempio, che i migranti furono lasciati per cinque giorni a bordo della Gregoretti e per sei giorni a bordo della Open Arms. Di fatto, essi rimasero su quest’ultima per ventuno giorni in tutto.

La vicenda iniziò il primo agosto del 2019, quando la nave effettuò il primo soccorso di naufraghi (ne seguirono altri due) nella cosiddetta zona Sar libica e l’allora ministro dell’Interno, di concerto con i ministri della Difesa, Elisabetta Trenta, e delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, dispose un preventivo “divieto di ingresso, transito e sosta nel mare territoriale nazionale”, in base al decreto Sicurezza bis (poi convertito in legge). Il 13 agosto i legali di Open Arms presentarono al Tar del Lazio un ricorso contro il provvedimento di divieto, che fu sospeso il 14 agosto. A quel punto la nave fece rotta verso l’Italia, ma non ottenne l’indicazione di un porto di sbarco.

La ministra Trenta rifiutò di firmare un nuovo decreto di divieto e mandò nei pressi della Open Arms due navi della Marina Militare, pronte al trasbordo dei minori. Il 14 e il 16 agosto il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, invitò Salvini ad «adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori», prospettandogli che la mancata autorizzazione a entrare in porto avrebbe potuto configurare un illegittimo respingimento. La vicenda si concluse il 20 agosto, quando il procuratore di Agrigento dispose lo sbarco e il sequestro della nave.

Da questa sintetica ricognizione emergono anche altre differenze tra le due vicende. Mentre per quella della Gregoretti il leader leghista ha avuto buon gioco nel dimostrare che la propria condotta era in linea con l’indirizzo del Governo, dato che nessuno aveva espresso opinioni avverse, nel caso Open Arms vi furono interventi in senso opposto da parte di alcuni componenti dell’esecutivo, come visto, per quanto probabilmente Conte sarebbe potuto intervenire più incisivamente per sbloccare la situazione.

A ciò si aggiunga che per la Open Arms, a differenza della Gregoretti, da un lato, il trattenimento a bordo proseguì nonostante una decisione giurisdizionale contraria al decreto di divieto; dall’altro lato, lo sbarco fu disposto non dall’ex ministro dell’Interno, ma da un magistrato, senza il cui intervento la permanenza in mare si sarebbe probabilmente protratta più a lungo.

«Su due sbarchi, con due identiche fattispecie di reato, a Catania si dice ho fatto bene, a Palermo che ho fatto male. Com'è possibile?», ha chiesto Salvini. Forse ora la risposta è più chiara.

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