Ho passato in Pronto soccorso (Ps) tutta la mia vita professionale e lo considero un privilegio. Ho visitato personalmente almeno centomila persone e molte di più ne ho viste passare intorno a me. Ho vissuto un periodo di grande sviluppo della medicina d’urgenza e questo mi ha consentito di imparare e di insegnare nuove strategie e tecniche di cura innovative. Ho visto persone morire e bambini nascere. Ho visto le vittime della violenza e quelle dell’eccesso di cure. Ho curato, cercando di mantenermi equanime, criminali e uomini di legge, tossicodipendenti e persone dipendenti dal potere e dai soldi, cristiani, musulmani, ebrei, atei e mangiapreti. E allora, mi domando oggi, se il lavoro in Ps è così vario, così ricco di insegnamenti e di soddisfazioni, così professionalmente sfidante, perché nessuno lo vuole più fare?

Il problema

La nuova specialità di medicina d’urgenza (istituita nel 2009) è stata per i primi anni dalla sua apertura una delle più gettonate, insieme a medicina interna, da parte dei giovani medici. Adesso tutto è cambiato. Lo scorso anno il primo iscritto a medicina d’urgenza a Milano si piazzava attorno al posto 4mila della graduatoria nazionale. E, una volta specializzati, i giovani urgentisti si fermano quasi tutti a lavorare nei grandi ospedali universitari e di insegnamento. Negli altri ospedali i concorsi per il Pronto soccorso vanno deserti, il personale medico è costantemente in numero inadeguato, i turni insostenibili. Chi riesce a trovare un’alternativa fugge e imbocca altre strade.

Una delle ragioni della disaffezione dei medici è l’inadeguatezza degli organici, per molti anni bloccati dalla assai poco lungimirante rigidità dei piani di rientro che hanno impedito le assunzioni in quasi tutte le regioni italiane. Le stime variano, ma non si è lontani dalla realtà nel dire che negli ultimi dieci anni si sono persi circa 40mila posti di medico o infermiere nei nostri ospedali. Qualche cosa si è mosso con il Covid che ha obbligato a nuove assunzioni, ma resta da vedere se queste assunzioni, molte delle quali con un contratto temporaneo, verranno confermate.

I medici però non sono l’unica cosa che si è persa negli ultimi anni, perché nello stesso periodo la sanità italiana ha perso anche circa 70mila posti letto. Una delle tante conseguenze negative è stata che, dalla fine degli anni Novanta, i medici del Ps passano una considerevole quantità di tempo a cercare una destinazione nei reparti per i pazienti che hanno in cura. Non sono rare le situazioni nelle quali questa ricerca dura diversi giorni, e sono giorni che i pazienti, in genere anziani e fragili, trascorrono troppo spesso in condizioni inadeguate per spazi, servizi, comfort e livello di assistenza. D’altra parte, come si può chiedere assistenza adeguata a dei reparti nati per affrontare l’urgenza che si trovano a dover gestire contemporaneamente decine di pazienti in attesa di ricovero? Pazienti che, per definizione, sono in condizioni cliniche gravi o complesse e che necessitano di improcrastinabili valutazioni diagnostiche e interventi terapeutici.

Riduzione dei ricoveri

Siccome il bicchiere non è mai del tutto vuoto, bisogna riconoscere che la mancanza di letti ha portato ad una netta riduzione dei ricoveri da Pronto soccorso che sono scesi, negli ultimi 20 anni, da circa il 25 per cento a circa il 14 per cento degli accessi. Un’ottima cosa questa, perché curarsi a casa propria, quando possibile, è meglio che passare giorni o settimane anche nel migliore degli ospedali. Una cosa però che, per essere fatta in sicurezza, secondo scienza e coscienza come si usava dire, richiede più esami, più rivalutazioni e più visite prima della dimissione dal Ps. I tempi di permanenza in questi reparti, che sono diventati una specie di limbo al confine tra il territorio e l’ospedale, si è dunque allungato. E se chi occupa letti e barelle in Pronto soccorso li occupa più a lungo, più a lungo dovrà aspettare chi è ancora in sala d’attesa, non sempre per un problema banale e qualche volta correndo rischi inaccettabili. Da questo stato di cose nascono spesso contenziosi con i malati e i loro familiari e, visto che il mondo non è fatto solo di persone pazienti e ragionevoli (da uno e dall’altro lato della barricata), qualche volta dalla discussione accesa si passa alle minacce o alle percosse (e questa volta a subirle sono sempre medici e infermieri!).

Resta un ultimo punto da ricordare. Dato l’arcaico e complesso sistema delle “affinità e equipollenze” tra le diverse specializzazioni e la altrettanto arcaica struttura dei concorsi pubblici, chi viene assunto in Ps rischia di passarci tutta la propria vita professionale. E se a trent’anni l’«adrenalina» dell’urgenza e la grande varietà di casi può far tollerare tutte le difficoltà, per una donna di quaranta con tre figli o per chiunque abbia superato i sessanta, lavorare sette notti al mese e i due terzi dei week end diventa un peso non più tollerabile. Tanta carne al fuoco per i policy-maker, ai quali dedicherò la terza e ultima di queste riflessioni.

Medico d’urgenza, l’autore è stato per 15 anni direttore del Pronto soccorso dell’ospedale Niguarda di Milano.

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