Come sta Alaa?

Alaa Abd el-Fattah, una delle figure più iconiche del movimento egiziano per i diritti umani degli ultimi decenni, condannato da un tribunale d’emergenza, alla fine del 2021, a cinque anni di carcere solo per il suo impegno in favore dei diritti umani, dovrebbe essere arrivato alla fine del quarto mese di sciopero della fame.

Una protesta estrema, la sua, intrapresa il 2 aprile contro l’ingiusta condanna, le inumane condizioni detentive e il rifiuto, da parte della direzione delle carceri, di garantirgli i diritti consolari di cittadino con passaporto britannico.

Niente più notizie

Scrivo “dovrebbe”, perché del “Gramsci d’Egitto” (come viene chiamato in Italia dopo l’uscita di “Non siete ancora stati sconfitti”, una raccolta di suoi scritti pubblicata da hopefulmonster) non si hanno notizie dirette dal 16 luglio, quando alla madre in visita al carcere venne consegnata una sua lettera. Scritta chissà quanti giorni prima e dunque le ultime notizie risalgono ancora a giorni addietro.

Un detenuto in sciopero della fame, proprio per via delle condizioni di salute critiche in cui si trova, dovrebbe poter avere accanto avvocati e familiari; gli dovrebbero essere garantite tutte le cure mediche cui ha diritto, comprese visite di medici indipendenti vincolati al rispetto della loro etica professionale. Dovrebbero essere date notizie aggiornate e in forma trasparente su di lui, alla famiglia e agli avvocati.

La beffa egiziana

Nulla di tutto questo, purtroppo. L’ostinazione con cui la direzione della prigione di Wadi el-Natroun tiene Alaa isolato dal mondo esterno provoca un’angoscia indicibile nei suoi familiari: soprattutto nella madre che, negli ultimi giorni, si è ripetutamente presentata all’ingresso del carcere chiedendo di vedere suo figlio.

Beffardamente, le autorità egiziane dichiarano periodicamente che è Alaa che non vuole vedere nessuno, che tutto va bene, che le condizioni di salute sono ottime e che mangia abbondantemente e regolarmente. La famiglia si è chiesta, pubblicamente, più volte in questi giorni: Come sta Alaa? È ancora vivo? Ha preso il Covid? Non è in condizioni tali da poter prendere parte a un colloquio? È disperato e davvero non vuole vedere nessuno?

I governi che tacciono

Una prova indiretta che Alaa è ancora vivo è, paradossalmente arrivata nelle ultime ore dal fatto che è stato convocato dal procuratore generale riguardo a una denuncia di torture presentata tre anni fa. C’è da sperare che non sia una messinscena.

Se il comportamento delle autorità egiziane è scandaloso, non lo è da meno il silenzio del resto del mondo: soprattutto delle autorità del Regno Unito. Era sembrato, a un certo punto, che le pressioni e le manifestazioni avessero smosso il governo Johnson a intervenire e qualcosa era cambiato: trasferimento di prigione dalla famigerata Tora a Wadi el-Natroun, accesso ai libri, qualche breve periodo nel cortile fuori dalla cella.

Poi, come sappiamo, la crisi di governo a Londra ha tolto il nome di Alaa dall’agenda. Lo stesso qui in Italia: di Alaa, con scarne eccezioni in Parlamento e nell’informazione, non interessa niente a nessuno. Per non parlare di “storie egiziane” persino più vicine a noi.

Partecipare alla mobilitazione

Eppure, dal 28 maggio tante persone hanno preso parte, e stanno ancora prendendo parte oltre due mesi dopo, a un digiuno di solidarietà a staffetta di 24 ore. Una pratica antica, direi novecentesca, alla quale hanno aderito e stanno aderendo persone che ne hanno memoria. Per le nuove generazioni, rinunciare al cibo per alcune ore, pare un atto arduo.

Alaa ce la sta facendo da 120 giorni. O meglio, “dovrebbe” starcela facendo.

Chi vuole partecipare al digiuno solidale a staffetta può inviare una e-mail a info@invisiblearabs.com

© Riproduzione riservata