La destra è minoranza nel paese, 44 per cento dei voti. Ottiene però il 58 per cento dei parlamentari, perché le altre forze sono andate divise. Insieme centro-sinistra, Cinque stelle e il cosiddetto terzo polo (ma è stato il quarto polo e il sesto partito) superano il 49 per cento dei voti: oltre 5 punti sopra le destre.

Qualunque analisi sulle ragioni di questa sconfitta, su un’elezione che consegna una delle più importanti nazioni occidentali a un governo di estrema destra e, per la prima volta, un paese fondatore dell’Unione europea a un governo di sovranisti e post fascisti (così chiamano all’estero il partito di Giorgia Meloni), non può non partire da questo dato di fatto: sono state le divisioni degli avversari a portare l’estrema destra alla vittoria (oggi, come un’altra volta nella storia dell’Italia).

Si può discutere sugli errori tattici che hanno condotto a queste divisioni, più remoti o più prossimi a noi: fra questi la scissione di Luigi Di Maio, la scelta di Giuseppe Conte di togliere il sostegno a Mario Draghi, il voltafaccia di Carlo Calenda, le contraddizioni nella coalizione di Enrico Letta.

Si può discutere su quanto alcuni singoli leader abbiano favorito le divisioni anziché provare a ridurle, mettendoci così su una china che conduceva al disastro. Sono responsabilità dei singoli (quello più divisivo, ad esempio, è stato di gran lunga Calenda) che rimarranno indelebili nella storia del paese, tantopiù se il governo delle destre sarà duraturo e avvierà l’Italia lungo una strada polacca o ungherese.

Se la vittoria di Meloni sarà veramente un tornante decisivo per l’Italia, per l’Europa e per l’occidente (e questo rischio c’è), allora la condanna degli storici su Calenda e Matteo Renzi, su Letta, su Conte, per quello che è successo in questi due mesi e ancora prima, sarà senza appello (e finora solo Letta ne ha tratto le conseguenze).

Le responsabilità dei singoli

Sarebbe un errore però fermarsi solo alle responsabilità dei singoli. Dietro questo disastro c’è infatti una sconfitta culturale e sociale ben più profonda. È mancata in questi anni la capacità di capire, e spiegare, che la lotta alle disuguaglianze e alla crisi ambientale, oltre che per i diritti civili e per l’Europa, non solo è giusta in sé ma è oggi interesse prioritario dell’Italia, di tutto il paese.

E, assieme, è mancata la capacità di comprendere che le grandi culture progressiste del nostro tempo, cioè quella socialista, quella liberale di sinistra (che non è neoliberale) e quelle più recenti ecologiste e femministe, possono e devono completarsi l’una con l’altra, più che cercare un compromesso al ribasso.

Spettava innanzitutto al Partito democratico questo compito, per sua stessa natura. E il Partito democratico non ha saputo svolgerlo. Da qui la confusione sulla linea politica (agenda pro Draghi, o agenda progressista?) e quella sulle alleanze, che ne è la conseguenza. Da qui, deve partire anche qualsiasi discorso per il futuro.

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