Una fotografia del modo in cui la scuola stia affrontando in modo poco coerente il dialogo con il futuro lo si trova nelle Indicazioni nazionali per il primo ciclo d'istruzione, in particolare sull'intelligenza artificiale.

Se da un lato si avverte l’intenzione positiva di innovare e di portare la scuola al passo con i tempi, dall'altro emerge una preoccupante superficialità nell’affrontare questioni cruciali legate al senso, alle finalità educative e ai rischi di una standardizzazione eccessiva. Le tecnologie vengono spesso presentate come strumenti capaci di rendere l’apprendimento più coinvolgente, personalizzato e inclusivo. Realtà aumentata, ambienti virtuali, piattaforme e-learning, robotica, intelligenza artificiale: tutto viene celebrato come una possibilità straordinaria, ma si tralascia spesso una riflessione sul "perché" utilizzare questi strumenti.

Così facendo, si rischia di promuovere un tecnocentrismo funzionalistico che non si accompagna a una riflessione autentica sui significati educativi, etici e cognitivi. Il risultato potrebbe essere una generazione di studenti capaci di utilizzare strumenti digitali, ma incapaci di comprenderli, interrogarli e gestirli criticamente. E non tecnicamente, ma proprio nelle sue, ancora inespresse, potenzialità. L’impossibilità di comprendere o di domandare i perché (Hier ist kein Warum), lo sappiamo, è l’anticamera dell’avvizzimento del pensiero.

Il nodo centrale sta proprio nella differenza tra alfabetizzazione informatica e competenze digitali profonde. È importante che gli studenti sappiano usare una Lim, editare un video o cercare informazioni online, ma è ancora più cruciale che capiscano come funzionano gli algoritmi, cosa significa programmare, come vengono trattati i dati o su quali basi un'intelligenza artificiale prende le sue decisioni. Se manca questa consapevolezza, rischiamo di educare a un uso passivo delle tecnologie, rendendo fragili le competenze digitali stesse.

E proprio sull’intelligenza artificiale emerge una criticità ancora più significativa. Sebbene si inviti a usarla in modo critico (ma come?), l’Ia viene vista come una grande opportunità, ma non sempre è accompagnata da strategie chiare per integrarla in modo efficace nella didattica. Non basta far correggere agli studenti testi generati dalle macchine o suggerire che possa aiutare i docenti a «fare cose che l’insegnante non può fare, o non con altrettanta rapidità» (sic. box3 pag 47).

Occorre insegnare loro come interrogare questi sistemi, comprenderne limiti e potenzialità, e riflettere sulle implicazioni etiche e cognitive che ne derivano. Altrimenti l’Ia rischia di diventare una "scatola magica", che semplifica e risolve compiti difficili, ma che non viene davvero capita e sfruttata appieno.

Traspare una prudenza che oscilla tra il permissivo (la si usi, ma con juicio) e il paternalistico, come se lo spingersi oltre venga percepito come un rischio e non una sfida.

Infine, è fondamentale distinguere l’accessibilità tecnologica dalla vera inclusione. Non basta distribuire dispositivi o usare sottotitoli per rendere la scuola inclusiva. L’inclusione autentica richiede un approccio pedagogico, una progettazione didattica capace di riconoscere e valorizzare le differenze individuali degli studenti.

Mal gestita, l’intelligenza artificiale potrebbe persino amplificare stereotipi e penalizzare chi non si adatta agli schemi di apprendimento standardizzati codificati negli algoritmi. L’impressione è che la tecnologia venga proposta sia come uno dei tanti strumenti a disposizione (sempre che lo sia davvero) sia come un mero contenuto da somministrare agli alunni con parsimonia.

Un contenuto che si va ad aggiungere alla bulimia da contenutismo che già lamentava Riccardo Massa in Cambiare la scuola (1997). È fin troppo evidente che introdurre solo contenuti getti ombra su dove sarebbe il caso di intervenire davvero.

La vera sfida non è adottare nuove tecnologie o camei distorti, quanto sviluppare consapevolezza critica, mettendo sempre al centro la relazione educativa e il ruolo fondamentale degli insegnanti.

I docenti non hanno bisogno di menù precotti, né di strumenti magici. Hanno bisogno di strumenti veri, tempi adeguati, passione, e soprattutto fiducia nella loro professionalità e riconoscimento. Perché la scuola non è una mensa: è una cucina. E noi insegnanti, fortunatamente, siamo ancora capaci di cucinare.

© Riproduzione riservata