Nel dibattito politico sull’elezione del presidente della Repubblica colpisce come si dia per scontata la valutazione del futuro del governo esclusivamente in funzione dei calcoli elettoralistici dei partiti.

L’attuale governo potrà proseguire o meno a seconda della situazione che si determinerà con l’elezione del presidente. Eppure, a un anno quasi dall’insediamento dell’esecutivo guidato da Mario Draghi, è possibile una prima valutazione che guardi ai risultati raggiunti e ai vincoli che ne hanno condizionato l’azione.

E’ soprattutto su questa base che occorrerebbe discutere del suo futuro. Ed è questo che interessa di più ai cittadini-elettori.

Fino a che punto le indiscusse qualità e il prestigio internazionale del capo del governo hanno potuto incidere su quello che è stato possibile fare e che eventualmente si potrebbe fare in futuro?

Non c’è dubbio che il fattore Draghi abbia influito a livello internazionale e nei rapporti con l’Ue, e che questo abbia avuto delle conseguenze positive concrete anche dal punto di vista economico, per l’apertura di credito a livello europeo e da parte dei mercati finanziari.

Ma fino a che punto tale fattore ha potuto condizionare l’azione di governo, la sua capacità di affrontare nodi cruciali che il paese si trascina da lungo tempo e che la pandemia ha contribuito a aggravare?

Uno dei modi per tentare una riposta è quello di guardare alla capacità di incidere su una caratteristica che distingue chiaramente l’Italia: spendiamo molto per politiche di protezione sociale (non meno di altri paesi europei) ma la capacità degli interventi redistributivi di ridurre le disuguaglianze e contrastare la povertà è significativamente più bassa. E il dualismo tra garantiti e non appare tra i più forti.

Una redistribuzione perversa è stata nutrita da decenni di interventi particolaristici e irresponsabili (dalle pensioni balcanizzate al fisco con bassissima capacità redistributiva a favore dei redditi più bassi). Essa pesa sui conti pubblici e sui bilanci delle imprese, e al contempo è scarsamente efficace per ridurre un livello di disuguaglianza tra i più alti nelle democrazie avanzate.

Questo richiede interventi urgenti di riforma in direzione universalistica del welfare e del sistema fiscale che il governo ha però dovuto palesemente rinviare, costretto dal conflitto paralizzante tra le sue eterogenee componenti.

Basti pensare alla vicenda delle pensioni, al reddito di cittadinanza, al catasto, alla riforma fiscale.

Ci sono i margini perché la "finestra di opportunità” costituita dalle condizioni economiche internazionali, dai cambiamenti nelle politiche della Ue e dalle qualità di Draghi possa essere colta con un rilancio dell’azione di governo?  E a quali condizioni?

Quanto potrebbe incidere un orientamento più deciso di Draghi? E quanto la capacità di trovare un sostegno nelle grandi organizzazioni degli interessi? La discussione sul futuro dell’esecutivo dovrebbe partire da qui.

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