Secondo il noto principio di Anton Čechov, se in scena compare una pistola, questa prima o poi dovrà sparare. Questione di economia narrativa. Ecco perché il tutorial della borsetta della commissaria europea Hadja Lahbib, che illustra l’ormai celebre kit per sopravvivere le prime 72 ore in caso di guerra o catastrofi, ha provocato tanta inquietudine.
Si è parlato di fallimento comunicativo, per il tono incredibilmente scanzonato della messa in scena, e per lo sgomento che ha provocato. Ma è stato davvero un errore? Le istituzioni che volevano rassicurarci ci hanno invece spaventato? O l’obiettivo era proprio farci paura? E farci paura serve a convincerci dell’urgenza del riarmo continentale?
La “strategia della prontezza” dell’Ue appare come il volto civile del piano di spesa militare (ribattezzato a sua volta “Readiness 2030”): quello che ha l’obiettivo di indurre nella cittadinanza intera una cultura della minaccia. Serve a «creare resilienza», ha detto la presidente della commissione, Ursula Von der Leyen, intervistata dal Corriere della Sera. Perché «prevenire è meglio che curare».
Ma una cosa è costruire competenze necessarie per rispondere alle emergenze – tra cui possibili nuove pandemie – un’altra è creare nervosismo, ansia, panico. Una cosa è prospettare interventi a protezione delle popolazioni europee in caso di pericolo, un’altra è lavorare per insinuare, insediare stabilmente il senso di pericolo nelle nostre menti.
Nel tempo trascorso dall’aggressione russa in Ucraina la guerra è tornata, giorno dopo giorno, a pervadere il nostro universo linguistico e il nostro immaginario, attraverso l’informazione scritta e parlata, e l’ambiente visuale in cui siamo immersi. È arrivata a penetrare nelle nostre conversazioni, nelle nostre paure, nei nostri sogni.
La guerra si fa spazio, prima che nella realtà, nell’immaginazione. Si annuncia innanzitutto come una possibilità, poi come un decorso probabile, infine inevitabile. Travolgendo, prima ancora delle ragioni e le forze capaci di opporsi al conflitto, le parole che possono costruire un lessico alternativo e nutrire pensieri di pace.
La guerra, scriveva già Tucidide, cambia il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. L’«audacia sconsiderata» diviene «coraggiosa lealtà», il «prudente indugio» è inteso come «viltà», la «moderazione» nient’altro che «codardia», e l’«intelligenza di fronte alla complessità» semplice «inerzia». Anche così questa «maestra di violenza» si insinua nel nostro immaginario e nel nostro parlare, aprendo nuove possibilità di legittimazione per gli agiti e i linguaggi che offendono la vita umana.
Nel nostro tempo, alle strategie discorsive si devono aggiungere le tecnologie di visualizzazione che agiscono sull’immaginario. Quelle, per esempio, che attraverso l’intelligenza artificiale consentono di rappresentare con un grado molto elevato di verosimiglianza scenari ipotetici che rendono presenti, innanzitutto nelle nostre menti, possibilità spesso indicibili o spaventose. Video generati dall’intelligenza artificiale possono mostrare i monumenti simbolo delle capitali europee distrutte dalle bombe del nemico. Oppure anticipare nel mondo virtuale un proposito molto reale.
È ciò che abbiamo visto con il video diffuso da Donald Trump chiamato «Trump Gaza», che nel bel mezzo di un presente in cui la popolazione palestinese muore con il ritmo di centinaia di persone al giorno, per le bombe o per le malattie e la fame, mostra una riviera mediorientale riedificata secondo i canoni del turismo esotico, in cui scorrono fiumi di denaro occidentale, e i palestinesi servono cocktail ai padroni bianchi.
Un sogno colonialista, razzista, classista, che si fa – virtualmente – realtà, rendendo concepibile l’inconcepibile, cioè l’annientamento violento di un’intera popolazione. Anche così la guerra conquista le menti,
E allora diventa difficile credere nell’intento semplicemente preventivo dei messaggi con cui le istituzioni Ue mettono in guardia verso possibili attacchi, o nel loro effetto benevolmente protettivo. Da tempo ci viene ripetuta l’urgenza di prepararci alla guerra. Da ben prima della vittoria elettorale di Trump si è parlato – l’ha fatto più volte, per esempio, l’ex presidente del Consiglio europeo Charles Michel – della necessità di un cambio radicale nel modo di pensare di cittadine e cittadini. A questo serva allora farci paura. Fare della paura un mezzo e fine di propaganda politica, per legittimare scelte di investimento in armamenti, destinate a segnare pesantemente il nostro futuro comune.
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