Ci ha lasciato il 24 ottobre a cent’anni Germano Nicolini (Dièvel, in dialetto reggiano), ex comandante partigiano e simbolo delle “attese tradite” della lotta di Liberazione. Pochi oggi ricordano una vicenda emblematica della storia d’Italia, al centro dell’interesse tanto della giustizia (due processi svoltisi a quasi cinquant’anni di distanza) quanto della ricerca storica.

Lo snodo dal 1945 al 1947

Perché il “caso Nicolini” ci racconta il clima di violenza, omertà e convenienza politica che caratterizzò gli anni ’45-‘47, in quel crinale franoso in cui la giovane democrazia mosse i primi passi, tra aspirazione a un ritorno alla normalità e desiderio di andare alla “resa dei conti”. Fu il “triangolo della morte”, un pezzo di storia nazionale (troppe volte strumentalizzata) entro cui Germano Nicolini entrò suo malgrado, perché il Dièvel era stato sempre «contro la giustizia sommaria e non solo a parole» (come raccontava anni fa).

Giovane partigiano

La sua storia è quella di un’intera generazione: a vent’anni viene catapultato in guerra come ufficiale del 3º Reggimento Carristi di Bologna; l'8 settembre ‘43 riesce a sfuggire ai tedeschi e si unisce alla 77ª brigata SAP che opera nelle pianure del reggiano. È una brigata Garibaldi, dunque comunista. Ma lui è un comunista anomalo: proviene da una famiglia contadina benestante, è studente universitario e cattolico praticante. Ciò nonostante si fa valere tra i compagni: diviene comandante di piazza a Correggio e poi nel ’46 sindaco del paese sostenuto anche dalla Dc. Ma a questo punto nella sua vita interviene un episodio cruciale: in una frazione del paese viene ucciso il parroco don Umberto Pessina; le indagini si concentrano immediatamente su di lui.

Il processo

Viene arrestato con l’imputazione di essere il mandante dell’omicidio (assieme agli esecutori Ello Ferretti e Antonio Prodi); a suo carico le supposizioni del capitano dei Carabinieri Pasquale Vesce, i malumori della Chiesa (che influenzò pesantemente le indagini), il pressapochismo della Corte di Perugia (che si dimostrò pregiudizialmente orientata alla condanna, tanto da ritenere false due autodenunce scritte da partigiani espatriati in Jugoslavia),  e il tradimento del Pci che decide di sacrificarlo come capro espiatorio per i delitti del dopoguerra. Il processo (seguito da un giovane Enzo Biagi), si conclude con la condanna a 22 anni di carcere. Nel 1956 il comandante Diavolo viene scarcerato e inizia la battaglia per la revisione del processo, ma non trova il sostengo del suo partito; è il colpo definitivo che racconta nel libro di Frediano Sessi, Nome di battaglia: Diavolo («Non avevo messo in conto di essere osteggiato nella ricerca della verità. (...) Non avevo messo in conto di venire emarginato nella stessa vita interna di partito»).

Il riscatto

Solo nel 1990, dopo un articolo di Otello Montanari (dirigente dell’ANPI reggiano) uscito sulle pagine de «il Resto del Carlino» in cui si invita i testimoni a farsi avanti, si riaccendono le luci su questa storia. L’articolo, ribattezzato Chi sa parli!, porta alla riapertura del processo, e nel 1994 Nicolini viene definitivamente assolto “per non aver commesso il fatto”. Dallo Stato italiano riceverà le scuse ufficiali, la medaglia d'argento al valore militare e la restituzione dei gradi di capitano. È la rivalsa nei confronti dei troppi silenzi sviluppatisi con il mondo politico della sinistra e dell’associazionismo partigiano.

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