Se sei un genitore contemporaneo attento alla sensibilità del mondo, c’è una frase che non dici mai, e che sei felice di non dire, perché non dicendola ti senti risolto e intelligente. Questa frase è “Se non hai figli, non puoi capire”. È sgradevole, sbagliata, filosoficamente poco interessante. Chi ha detto che per comprendere una situazione dobbiamo per forza viverla? Il potere dello sguardo esterno, la lucidità di chi non è coinvolto.

Però poi la settimana scorsa sono rimasta chiusa per quattro ore e passa in un aereo fermo sulla pista (una neve d’aprile si aggirava per l’Europa). Un’attesa di quattro ore sulla pista non è come un viaggio di durata equivalente, anche perché in queste situazioni prima ti dicono che si aspetterà mezz’ora, poi un’ora e così via. Un gioco psicologico finissimo, le speranze, le aspettative disattese, la fissità del tutto. Cervelli e corpi immersi nella completa incertezza.

Cento persone, l’aereo era pieno. Cento menti sfinite che respirano e sbuffano (con indosso una ffp2), mentre cercano di non perdere la calma. Perché tanto lamentarsi non serve a nulla: la neve, le cause di forza maggiore, le autorità francesi che non autorizzano il decollo.

Se fossi stata sola avrei letto e scritto qualcosa, avrei perso tempo sui social, avrei coltivato la noia guardando un punto fisso, quest’ultima cosa fra l’altro mi riesce benissimo. Ma non ero sola, ero con i miei due figli. Io, loro e nessun altro adulto a dar sostegno.

La figlia più grande ha i suoi libri, i suoi quaderni per disegnare, il suo flusso di coscienza da gestire. Il piccolo però ha diciannove mesi, e questo vuol dire che non ha neppure il posto a sedere, ma siede in braccio a me, pur essendo già molto pesante, ingombrante e costantemente desideroso di correre felice sui prati.

Soprattutto a causa di questo bimbo voluminoso e vivace mi sono trovata più volte a pensare “Se non hai figli, non puoi capire”. La frase è sgorgata dal mio cuore.

Viaggiare con bambini non è mai semplice, ma bisogna intendersi sull’età. Un bambino di sei mesi o meno è un fagottino morbido e leggero che mangia e dorme. Un bambino di tre anni ha una solida capacità di occupare il tempo guardando i cartoni anche molto a lungo, e questo non sarà ideale, ma in situazioni di immobilità prolungata è chiaramente utile.

Nel mezzo, c’è un’età di curiosità crescente, di movimento crescente. L’incapacità quasi completa di comportarsi in una maniera che sia comoda per chi deve occuparsi di te. Un bambino di diciannove mesi chiuso in un velivolo necessita di intrattenimento continuo. E questo intrattenimento deve continuamente variare.

Il genitore intrappolato sull’aereo, intraprendente come Indiana Jones, troverà allora una sequenza di attività, una specie di coreografia della sopravvivenza psicologica che ripeterà mentalmente: «Adesso gli faccio vedere dieci minuti di Peppa Pig, poi si stuferà e allora gli farò fare un giro per il corridoio, poi si stuferà e allora gli darò qualcosa da bere, anzi il panino da mangiare a piccoli morsi, poi si stuferà e allora gli canterò le canzoni della baby dance, poi si stuferà e andremo a salutare la bambina che è seduta due file dietro, è tanto simpatica, poi si stuferà e ricomincerò dall’inizio. Fino a riempire quattro ore. Se ho fortuna dormirà un po’. Succederà».

Dopo quattro ore l’aereo finalmente è decollato. A quel punto ero famosa, gli altri passeggeri mi conoscevano. La madre che deve intrattenere, la figura che non vuoi essere ma che un po’ ti colpisce nella sua intensità.

Ho pensato: «Dai, adesso qualcuno mi dice qualcosa di bello, mi dice signora lei è proprio brava, lei è il genitore del mese». Dopo quattro ore così, è difficile spiegare, ma vuoi un riconoscimento dagli sconosciuti, una notorietà da coltivare, dei fan.

Il signore seduto dall’altro lato del corridoio, un uomo solo, che aveva letto e fatto il sonnellino e telefonato a varie persone parlando di cose puramente e invidiabilmente adulte, mi ha fissata di colpo con l’aria di chi la sa lunga: «Certo che lei è fortunata, eh. Ha un bambino buonissimo».

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