Riflettere sui confini che attraversiamo durante la vita può provocare un senso di vertigine. Non stiamo parlando di quelli fisici, delimitati da dogane o fili spinati, ma di quelli che segnano il passaggio tra ciò che siamo e ciò che possiamo diventare, tra le nostre identità e quelle degli altri. Margini che impongono limiti alle nostre scelte etiche e morali, o indicano l’espansione massima dei nostri desideri.

Persino ricorrenze come il 25 Aprile e il Primo Maggio o le parole “antifascismo” e “diritti" sono confini, pietre miliari che circoscrivono insiemi di valori. Qualcuno potrebbe obbiettare che nel 2023 sia scontato considerare quei limiti come inamovibili, qualcun altro che sia superfluo. Invece, dibattiti puntuali ogni anno finiscono per farci “inciampare” su di essi. E non è detto che sia un male.

A ben guardare, espressioni come “liberazione” e “lavoro” implicano il superamento di limiti: l’uomo non nasce libero, come ci ricorda la Caverna di Platone, ma ha la facoltà di compiere lo sforzo per rompere le catene e ottenere libertà e autodeterminazione. In questo viaggio è necessario decidere se oltrepassare le barriere. Ieri erano l’asta di un posto di blocco repubblichino o il cancello di una fabbrica occupata. Oggi le nostre scelte su guerra, immigrazione, intelligenza artificiale o maternità surrogata.

Ognuno ha i suoi confini: Elon Musk deve stabilire quanti razzi sono sacrificabili per conquistare Marte; la maggior parte di noi se il limite del conto in banca ci consente di cambiare l’auto. Qualunque sia la soglia che decidiamo di oltrepassare, non possiamo sapere se sia la scelta giusta o sbagliata, soprattutto in una società dove i limiti si spostano sempre più velocemente. Ma è proprio vivendo costantemente lungo i confini e riflettendo sul “se” e “come” valicarli che siamo diventati padroni del nostro mondo. L’unico indugio è la paura per ciò che troveremo oltre le Colonne d’Ercole, anzi, ancora più forte è il timore che i mostri che immaginiamo appena al di là della frontiera decidano di attraversarla per primi. È in nome di questa paura che abbiamo trasformato molti confini in muri, alcuni capaci di resistere nella nostra mente per secoli.

Ma anche rimuovere ogni segno che separi due idee, due identità, o due momenti della storia, magari costruendovi sopra un’autostrada senza soluzione di continuità in nome di un inesorabile avanzamento, rischia di essere un errore. Per il progresso è fondamentale la consapevolezza di che cosa vogliamo superare: limiti che possono essere valicati, ma non negati. Riconoscere che stiamo attraversando una barriera mentre entriamo in un spazio diverso dal precedente ci costringe alla responsabilità di sfidare le nostre paure e i pregiudizi verso l’ignoto.

Costruire la cultura di domani significa immaginare un’architettura diversa, evitando muri o autostrade ed erigendo invece porte. Cornici tra gli spazi che ci ricordino dell’esistenza del limite, ma che ci invitino a girare la maniglia per mettere in discussione l’ordine del nostro luogo, esplorandone altri. Una porta è la premessa di un dialogo tra ambienti che non devono arrivare necessariamente a fondersi, ma che possono permearsi in modo non preordinato con reciproco vantaggio.

Ci sarà sempre qualcuno che vorrà chiudere le porte e buttare la chiave, ma lo sforzo richiesto per mantenerle aperte è uno sforzo essenziale, perché ribadisce il nostro desiderio di scoprire cosa ci sia “oltre”. Così come è essenziale resistere alla tentazione di rimuoverle per praticità, anche quando mettono in comunicazione realtà simili. Il progresso non nasce da mondi granitici, impenetrabili dalla diversità, o da società fluide che si dimenticano delle differenze. Piuttosto si genera dalla capacità di trarre il meglio da questi incontri. E così, anche “inciampare” su soglie di porte che si aprono sul passato può essere un modo per invitarci ad aprirne di nuove sul futuro.

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