A una scuola di scrittura mi è capitato di conoscere un venticinquenne dotato di un talento notevole, quel che si dice un dono; seguirlo e dargli consigli è un piacere per me.

L’altro giorno mi ha mandato un messaggio raccomandandomi di stare attento al Covid e ha aggiunto “sei l’unico vecchio che non vorrei che morisse”.

Ieri una signora a Milano, vedendo dei ragazzi ridere insieme senza mascherina, li ha redarguiti «così potete mettere a rischio i vostri nonni quando tornate a casa» e uno (evidentemente romano o giù di lì) le ha risposto «vabbè signó, mi’ nonno è morto da mo’».

Spesso le frasi scaturite dalla sincerità quotidiana svelano la ragnatela di eufemismi e censure su cui si basa il discorso pubblico.

La seconda ondata è arrivata e c’è voluto tempo per chiamarla col suo nome, un altro lockdown sarà inevitabile ma chi dice “coprifuoco” è considerato allarmista.

Tra le cifre da cui siamo ossessionati ogni sera, quelle più difficili da reperire sono le percentuali dei deceduti e dei pazienti in terapia intensiva divise per classi di età; anche sul sito del ministero si danno solo le percentuali di quelli dai 65 anni in su.

Non è questione di privacy, mica sarebbero dichiarate le identità; ma diventerebbe esplicita la maggiore anomalia di questo virus: qualcuno si infetta e non se ne accorge nemmeno, qualcun altro si infetta e muore.

Se davvero, come pare, i giovani si ammalano pochissimo, siamo di fronte al più grande gap generazionale che io ricordi: non un problema di autorità, o di posti di lavoro, ma una questione di vita o di morte.

Dopo il leggendario trentasettenne di Codogno, solo episodicamente si parla di giovani ammalati, in tivù sembrano tutti asintomatici: fin che i morti sono numerabili, perché non dire che età avevano ?

Se dobbiamo difendere e preservare gli anziani, compresi i molti che vivono in casa coi giovani, è ai giovani che dobbiamo dare la parola.

E’ giusto che sappiano su quali dati reali si fonda il loro senso di invulnerabilità, e che facciano i conti lucidamente con le loro responsabilità familiari (e/o nei confronti dei "maestri”).

Sto parlando soprattutto degli universitari e delle ultime classi dei licei, che nella chiusura generalizzata delle scuole vengono messi in un solo mucchio coi ragazzini di sette anni. E che invece dovrebbero aver voce in capitolo sullo studiare a distanza, o su come fare i turni per non intasare gli autobus: capisco che indire ora le assemblee di istituto e di dipartimento, o addirittura organizzare un movimento più vasto, sia al limite dell’impossibilità; ma la fantasia dovrebbe essere il loro forte.

Quale momento migliore per capire davvero che cosa è essenziale per loro, quali consumi, quali rapporti?

Sui media i giovani vengono trattati come oggetti, da biasimare o compiangere, o invidiare paternalisticamente, mai li si ascolta come soggetti, come quegli adulti che dopo i sedici anni hanno diritto di essere.

La parola che i media non gli danno, se la prendano; si assumano la loro parte di responsabilità nella loro stessa formazione, portino a coscienza i loro veri bisogni affettivi e (perché no ?) anche il loro cinismo.

Hanno rimproverato tante volte agli anziani di aver rubato loro il futuro, ci guardino negli occhi e ci dicano la verità, superando la retorica sentimentale dei “nonni”.

Per far questo, hanno bisogno di sapere quale sia il loro coefficiente di rischio; per unirsi, discutere francamente di ciò che ci divide è importante.

Le commentatrici e i commentatori di mezza età parlano anche troppo dei giovani, forse è ora che comincino ad ascoltarli.  

         

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