Con l’assemblea dell’Anm svolta in Cassazione si è aperta virtualmente la campagna elettorale per il referendum sulla riforma costituzionale della magistratura. I promotori ne parlano come di un completamento della riforma in senso accusatorio del codice di procedura penale e invocano metafore geometriche: il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto richiama «il triangolo isoscele, il giudice alla cima, alla base difesa e accusa equidistanti». Se si interroga l’intelligenza artificiale di Google, questa risponde che la riforma servirà «a rendere la carriera dei magistrati più trasparente attraverso l’accentuazione del merito e la modifica del collocamento fuori ruolo».

È bene essere chiari. La riforma non ha nulla a che vedere, né con la geometria processuale, né con la valorizzazione del merito o della trasparenza. Né affronta uno solo dei problemi di cui soffre il servizio pubblico essenziale della giustizia: tempi irragionevoli, effettività dei diritti della difesa, sovraffollamento penitenziario.

È una riforma del governo che mira a smantellare l’ordine giudiziario attraverso due innovazioni radicali, che, se considerate unitamente, non hanno eguali in alcuna democrazia europea.

Il primo tassello consiste in una vera e propria separazione delle magistrature e non, come si continua a dire, delle carriere. Quest’ultima prefigura percorsi di carriera diversi per magistrati che appartengono a un unico ordine giudiziario e potrebbe essere realizzata a Costituzione invariata. In fondo, era questo il disegno riformatore che avevano in mente, in ben altro contesto storico e politico, autorevoli professori – come Vassalli e Pisapia – e magistrati – in primis, Falcone – che vengono (in modo assai strumentale) citati come padri della riforma. Sarebbe più rispettoso lasciarli riposare in pace, perché mai hanno prospettato ciò che si prevede oggi, ossia la scissione delle magistrature, con la creazione di due Csm e, conseguentemente, di due corpi distanti e totalmente autoreferenziali.

La trasformazione

Il secondo architrave è rappresentato dalla trasfigurazione del Csm. Si introduce il criterio di nomina del sorteggio con il palese obiettivo di trasformarlo in un organo amministrativo. Da organo di governo della magistratura che funge da presidio dell’autonomia come condizione essenziale dell’indipendenza del singolo magistrato a organo burocratico (neanche di alta amministrazione). Il sorteggio è la negazione della democrazia e, da docente universitario, posso testimoniare che non ha dato grandi frutti. Quindici anni fa la riforma Gelmini lo introduceva per la nomina delle commissioni di reclutamento dei professori per sradicare le “baronie”. In realtà, al di là delle eccezioni patologiche, quelle scuole selezione dei giovani. Oggi, per effetto (anche) del sorteggio, la selezione è saltata, avviene sulla base di criteri formali e sono aumentati significativamente i ricorsi al giudice amministrativo. Non un grande risultato. Tant’è che lo si vuole eliminare.

Se questa è la portata della manovra, merita soffermarsi sui suoi effetti.

Per un verso, sul piano dei rapporti tra i diversi attori della giustizia penale, è agevole pronosticare un’eterogenesi dei fini. Si dice che la riforma rafforzerà il giudice a discapito del pm. Ma è vero esattamente il contrario. Un pm avvocato dell’accusa schiacciato sulla polizia; un pm valutato solo dai suoi colleghi in base al numero di condanne; un pm con alle spalle un proprio Csm che potrà intervenire per protestare con forza quando i giudici si permetteranno di assolvere l’imputato sarà più o meno forte rispetto a oggi? Francamente, visto il vento del populismo penale che sferza la nostra società, non mi pare un passo avanti. E lo dico da avvocato penalista: ho molti dubbi che un pm così forgiato contribuirà a rafforzare la difesa e, ciò che più conta, le garanzie dell’imputato.

Per altro verso, sul piano istituzionale, la riforma conseguirà l’obiettivo (ricorrente negli ultimi trent’anni) di normalizzare la magistratura, punendola per aver esercitato le prerogative che le assegnano la Costituzione e le fonti europee. Nella democrazia a una dimensione – quella dell’esecutivo – che si fa strada nell’occidente, non c’è spazio per un potere giudiziario autonomo e indipendente. Esattamente come il “quarto potere”, esso deve unicamente servire chi vince le elezioni.

Al di là dei proclami, questa è la posta in gioco nel referendum della prossima primavera. E i cittadini potranno rigettare una visione inaccettabile della democrazia, che finisce per restringere i loro diritti.

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