C’è un tempo per la rappresaglia e c’è un tempo per la de-escalation. La durezza dell’aggressione di Hamas è stata tale che Israele non può rinunciare politicamente, prima ancora che militarmente, a mostrare le sue capacità di reazione.

Al tempo stesso, deve lasciare trapelare con maggiore o minore evidenza la sua disponibilità a fare scendere il livello del conflitto, anche per tutelare per quanto possibile gli ostaggi nelle mani dei terroristi.

A loro volta, tutti gli altri attori, in particolare quelli schierati a sostegno di Israele, hanno l’obbligo, da un lato, di aiutare lo stato ebraico non cancellando le critiche alle politiche del governo Netanyahu, dall’altro, di non cessare affatto gli aiuti umanitari alla popolazione di Gaza accompagnandoli con i più severi rimproveri alla leadership di Hamas e i necessari richiami a comportamenti non svincolati da qualsiasi principio di umanità. In particolare, facendo un po’ di autocritica per la sua disattenzione negli anni più recenti, certo in parte giustificabile con riferimento al contrasto all’aggressione russa dell’Ucraina, e per la sottovalutazione degli sviluppi in quell’area, l’Unione europea deve misurare le sue sanzioni a Hamas e (ri)prendere iniziative diplomatiche.

Lo stato del conflitto Hamas/Israele e delle sue ramificazioni potrebbe scoraggiare qualsiasi tentativo di guardare oltre il contingente. In molti potrebbe suscitare una riflessione che conduce alla convinzione che ha improntato la politica israeliana da molti, troppi anni. La sicurezza dello stato ebraico dipende esclusivamente dalla sua superiorità militare.

Una soluzione duratura

Questa convinzione, unita alla debolezza politica di Al Fatah e alla incapacità di Abu Mazen di intraprendere qualsiasi iniziativa nonché la sterzata a destra dei governi israeliani, ha significato che nelle menti di molti si è affermata l’idea che il massimo conseguibile sia uno status quo anche se punteggiato da frequenti conflitti e scontri di entità variabile, ma non elevata.

La potente aggressione di Hamas può avere scritto la parola fine su questa illusione. Bisogna tornare a pensare a una soluzione duratura, concordata, di compromesso.

Per coloro che si compiacciono della distinzione fra il politico che ha visione corta, limitata e circoscritta dalle scadenze elettorali, e lo statista che pensa e opera a giovamento della prossima generazione, il problema riguarda la leadership politico-governativa di Israele.

Sarà anche opportuno notare che nelle democrazie, e Israele è uno stato democratico e pluralista, sono gli elettori a scegliere le leadership. Bobbio direbbe che le leadership democratiche si propongono, quelle autoritarie si impongono. Unione europea, Usa e tutti coloro che intendano avere un ruolo debbono porsi l’interrogativo riguardante le (plurale) leadership palestinesi. Sono certamente parte del problema. Saranno inevitabilmente anche parte della soluzione.

«Le esperienze delle cose moderne e la lezione delle antique» (Machiavelli) suggeriscono di guardare a come fu evitato il bagno di sangue nel Sudafrica che si accingeva a intraprendere la strada della democratizzazione. Fu la leadership carismatica di Mandela a convincere la maggioranza dei neri a una transizione senza vendette. Il resto lo fece in seguito la Commissione per la verità e la riconciliazione.

Naturalmente, nessuno ha il potere di fare nascere un leader carismatico. Nelle condizioni di enorme e abnorme ansietà collettiva (Max Weber) che caratterizza la vita di molti palestinesi, è possibile sperare nella comparsa, a rimpiazzare la leadership burocratica di Al Fatah e quella militare di Hamas, di un leader che con il suo carisma, da un lato, ottenga il necessario riconoscimento israeliano di credibilità, accompagnato dal massimo di restituzione dei territori, e, dall’altro, convinca i suoi sostenitori che la soluzione prospettata è il massimo e il meglio conseguibile e che offrirà condizioni e prospettive di vita altrimenti irraggiungibili. Solo utopia? Esistono alternative?

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