Il liberalismo inclusivo è «l’aspirazione a tenere strettamente uniti gli aspetti più desiderabili di una concezione liberale e di una socialista». Il libro di Michele Salvati e Norberto Dilmore (Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo, Feltrinelli) si interroga su dove va (o può andare) il capitalismo, e quindi il mondo, sul futuro delle nostre democrazie. Parte da Polanyi e Keynes, i due studiosi del Novecento eretti a «numi tutelari» dell’impresa, per confrontarsi con le tesi di Piketty, ma anche di Branko Milanovic e Dani Rodrik. Discute l’attualità, su scala globale, da Trump a Joe Biden, alle trasformazioni dell’Unione europea, alle politiche ambientali, a come la pandemia può contribuire a cambiare la nostra visione del mondo. Si tratta di un libro di livello insolito per la saggistica italiana, che spesso su questi temi pecca di provincialismo, o di superficialità (anche questo è un segno che siamo in declino, in fondo).

Salvati e Dilmore rappresentano un’eccezione. Con una scrittura lineare, con proprietà e competenza, il loro lavoro prova a fissare le coordinate fondamentali del nostro tempo. O almeno, le coordinate possibili e desiderabili, per questo «angolo di mondo» che chiamiamo ancora occidente.

Confesso di avere una motivazione in più per apprezzare questo libro. Scrivo da anni sulla necessità di un nuovo incontro fra il pensiero liberale e socialista, che si compia nei sicuri confini della democrazia liberale, e abbia fra gli obiettivi il cambiamento dell’attuale assetto della globalizzazione, per salvarne gli aspetti positivi ma consentire incisive politiche sociali e ambientali; e che riconosca senza sconti gli errori fatti nei decenni di politiche neoliberali (ad esempio la liberalizzazione pressoché totale dei movimenti di capitale, la riduzione generalizzata della progressività delle imposte, la competizione al ribasso nei diritti del lavoro, l’illusione che il mercato potesse risolvere quasi ogni problema e che le politiche pubbliche fossero inutili o dannose).

Ma fino allo scoppio della pandemia, proposte come il superamento dell’austerità in Europa, un Green New Deal sull’ambiente, una tassazione comune ed equa per le multinazionali, il rafforzamento del welfare o l’aumento della progressività delle imposte venivano considerate troppo radicali, dai nostri «riformisti», o inattuabili. Eppure questa è la direzione che sta prendendo la politica americana, grazie alla vittoria dei democratici nel 2020.

Ed è la direzione che si intravede in Europa, a partire dal Next generation Eu e che adesso, si spera, la vittoria dell’Spd in Germania e l’arrivo in coalizione dei Verdi contribuiranno a consolidare. Di questo discutono le forze progressiste in quasi tutti i paesi avanzati. Ecco: il fatto che quasi due anni dopo questa convinzione sia diventata molto più diffusa è una conferma proprio della tesi di Salvati e Dilmore, secondo cui il Covid ha inferto il colpo decisivo alla crisi del paradigma neoliberale, aprendo, forse, a una fase nuova.

Egemonia e transizione

Dalla seconda rivoluzione industriale a oggi, negli ultimi centocinquant’anni, Salvati e Dimore individuano infatti tre grandi «narrative egemoniche». Sono intervallate da altrettanti «periodi di transizione», l’ultimo dei quali è tuttora in corso. La prima narrativa egemonica corrisponde all’epoca della prima globalizzazione, dal 1870 alla Grande guerra, quella cosiddetta del liberalismo classico.

È un’epoca di progressi e di crescita senza precedenti, per l’umanità, che tuttavia si conclude anche con la peggiore tragedia umana che mai si fosse vista, fino ad allora. Gli anni fra le due guerre mondiali segnano un periodo di transizione, drammatico, da cui usciamo per fortuna con la vittoria sul nazifascismo.

Si inaugura così, in occidente, la seconda delle narrative egemoniche, il «compromesso socialdemocratico»: va dal 1945 al 1975, gli anni del miracolo economico, l’età dell’oro del capitalismo occidentale, quando si afferma nei paesi avanzati il moderno welfare state. La crisi stagflattiva degli anni Settanta è una seconda, breve, fase di transizione: prepara il terreno per la terza narrativa egemonica, quella neoliberale, a partire dagli anni Ottanta.

Al «fondamentalismo di mercato», dal 1870 al 1914, segue quindi una prima stagione di «liberalismo inclusivo», dal 1945-1974, quando un po’ in tutto l’occidente vengono conquistati, accanto e insieme ai diritti civili, i diritti sociali. Poi ecco di nuovo un’epoca di «fondamentalismo di mercato» (1980-2008), secondo la terminologia di Salvati e Dilmore.

A partire dalla cisi del 2008 è cominciato un terzo periodo di transizione, che la pandemia sembra avere accelerato verso il ritorno del liberalismo inclusivo. Ma Salvati e Dilmore sanno bene che le condizioni del compromesso social-democratico non sono riproponibili sic et simpliciter: fra l’altro per ragioni demografiche (l’invecchiamento della popolazione), socio-tecnologiche (il tramonto del fordismo), istituzionali (il superamento dello stato-nazione, inevitabile per le sfide che abbiamo di fronte a partire dall’ambiente).

La possibilità che si affermi il liberalismo inclusivo, in occidente, e che magari questo nuovo modello diventi anche un riferimento per altre regioni del mondo, dipende quindi dalla capacità delle forze progressiste di riuscire a governare l’economia globale e di cambiare in modo incisivo l’assetto internazionale: rafforzando l’integrazione europea, dando vita a una globalizzazione più giusta (a partire dalla regolazione dei mercati finanziari e da un’equa tassazione), ponendo in essere nuove forme di sovranità condivisa in grado di mettere in salvo l’ambiente.

Il nemico e l’avversario

In questo scenario, l’«etno-nazionalismo», che non rispetta i principi di uno stato democratico di diritto, è del liberalismo inclusivo il «nemico», per dirla ancora con Salvati e Dilmore. L’etno-nazionalismo è la democrazia illiberale di Orbán e Putin, che trova alleati in Italia, per loro stessa scelta, in Fratelli d’Italia e nella Lega di Salvini (ma diversi spunti in questo senso si potevano trovare in passato anche nel Movimento 5 stelle).

Il neoliberalismo invece, che non rispetta l’inclusività sociale, è per Salvati e Dilmore l’«avversario»: gli autori hanno ben chiaro che il fatto che i benefici della crescita si concentrino nelle mani di pochi, oltre a essere «eticamente indifendibile», può portare alla crisi delle liberal-democrazie e, alla fin fine, compromettere anche la stabilità e la crescita.

«Senza l’estensione dei benefici conseguenti a mercati liberi alla grande maggioranza della popolazione», scrivono, «un regime politico liberale (…) può diventare fonte di instabilità economica, sociale e politica». Come infatti è avvenuto. Sono state le politiche neo-liberali dei decenni passati ad aprire la strada, specialmente dopo la crisi economica del 2008, all’affermazione dei sovranisti e dei populisti, rischiando così di portare al collasso le nostre democrazie liberali.

Salvati e Dilmore mettono in guardia dal rischio di credere che le cose in Occidente possano continuar ad andare così come sono, solo con qualche aggiustamento. Dall’illusione cioè che si possa proseguire «sulla base delle politiche e del modo di regolazione dell’economia» affermatisi nella fase neo-liberale; un’illusione che pure molti difendono ancora, «o per ragioni che si vorrebbero scientifiche, o per interessi personali e di ceto, o per puro conservatorismo».

Sul piano del messaggio politico, Liberalismo inclusivo di Salvati e Dilmore ha quindi tre meriti, a mio giudizio. Chiarisce all’intera sinistra che il campo di azione non può che essere quello della democrazia liberale, e che nella sfera economica il mercato e la libertà di impresa devono svolgere un ruolo fondamentale.

Chiarisce ai riformisti che bisogna rompere senza indugi con le politiche e con le logiche dell’epoca neo-liberale, che la fase è cambiata, per dirla in sintesi, che la sinistra riformista oggi deve guardare in un’altra direzione (che in questo campo d’azione le riforme non sono quelle che riducono i diritti, ma quelle che li ampliano): e questo specie se vogliamo salvare i benefici della globalizzazione e delle nostre società aperte, e il benessere che abbiamo conquistato.

Chiarisce a tutti, infine, che questa sfida non può limitarsi ai confini dello stato-nazione, come invece troppo spesso si è creduto. Altrimenti è persa in partenza.

 

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