Sono iniziate le prime vaccinazioni anti-Covid, e con esse i dubbi sulla obbligatorietà del vaccino. Ai sensi della Costituzione (art. 32) la libertà di non essere sottoposti a trattamenti sanitari, inclusi i vaccini, può essere limitata per legge. E la Consulta ha affermato che la legge impositiva di un tale trattamento non è incompatibile con la Costituzione, se esso «è diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri»; se non comporta conseguenze negative per la salute di chi vi è obbligato salvo quelle «che appaiano normali e, pertanto, tollerabili»; se nell'ipotesi di danno ulteriore è prevista comunque «una equa indennità».

Dunque, si potrebbe emanare anche subito una legge che sancisca l’obbligo vaccinale. Perché non lo si fa? Tra gli altri motivi, perché a ogni obbligo deve corrispondere un diritto, e oggi solo pochissime persone potrebbero esercitare quello a essere vaccinate. In altre parole, lo Stato non può imporre l'obbligo perché al momento non è in grado di garantire il vaccino a tutti.

Obbligo di vaccino nei luoghi di lavoro?

Il dibattito sull’obbligatorietà oggi è meramente teorico – come detto – dato che il vaccino non è disponibile a chiunque ne necessiti o lo voglia. Ma la questione relativa alla possibilità che il datore pretenda la vaccinazione del lavoratore richiede chiarimenti. Serve partire dall’art. 32 della Costituzione: per imporre un trattamento sanitario, inclusa la vaccinazione, serve una legge. La generica norma del Codice civile (art. 2087), che esige l’adozione di tutte le misure consigliate dalla scienza e dall’esperienza per assicurare la salute e il benessere dei lavoratori, non sembra sufficiente per affermare che il datore di lavoro possa pretendere una vaccinazione. E il rischio di contenzioso, qualora lo facesse, sarebbe molto alto. Peraltro, la legge di conversione del cosiddetto decreto Liquidità (l. n. 40/2020, art. 29-bis) ha precisato che la responsabilità del datore di lavoro per contagio da Covid-19 è ipotizzabile solo se egli violi protocolli e linee guida governativi e regionali, escludendo così siano necessarie ulteriori misure teoricamente rientranti sotto l’ampio cappello della norma del Codice.

Ma c’è un caso specifico in cui il datore di lavoro può richiedere la vaccinazione.

Quali sono i casi in cui il vaccino può essere richiesto

Il Testo Unico Salute e Sicurezza sul Lavoro (d.lgs. n. 81/2008) contiene disposizioni dedicate ad attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici. Non qualunque attività - gli agenti biologici sono ovunque – ma solo quelle nelle quali si rilevino condizioni di pericolosità immediatamente riconducibili ad agenti biologici presenti in quei determinati ambienti e connessi all’attività che ivi si svolge. Qualora, a seguito della valutazione dei rischi, si riscontri tale esposizione, «il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari». Fra queste, «la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente» il quale, tra le altre cose, deve dare adeguata informazione dei «vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione» (art. 279).

Un’applicazione di questa previsione si ha per chi lavori nel settore ospedaliero e sanitario. Qualora la valutazione dei rischi evidenzi quello di «ferite da taglio o da punta e di infezione», se esistono vaccini efficaci, il datore di lavoro ha l’obbligo, tra le altre cose, di dispensarli «gratuitamente» ai lavoratori che non sono già immuni all'agente biologico (art. 286-sexies).

Dunque, serve una specifica esposizione al virus perché il datore di lavoro possa richiedere una vaccinazione. Insomma, non basta un rischio biologico generico di natura esogena e, pertanto, non ricompreso tra quelli propri dell’ambiente di lavoro. Anche perché, in epoca di pandemia, il generico rischio di contrarre il virus può esservi in qualunque luogo e per chiunque.

E chi non vuole vaccinarsi?

Se, nonostante la specifica esposizione al rischio o la previsione in via normativa, il lavoratore non volesse vaccinarsi? In questo caso, se il mancato trattamento sanitario determinasse un’inidoneità alla mansione specifica e l’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni, potrebbe arrivarsi al licenziamento. Anche perché un lavoratore che, pur essendo tenuto, non si vaccini, potrebbe diventare un potenziale pericolo per altri. E, ai sensi del citato Testo Unico, «ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni» (art. 20).

Detto tutto questo, e sempre in attesa di una disponibilità adeguata di dosi di vaccino, ora la decisione spetta al legislatore. Nel mentre, si auspica che nel dibattito pubblico si evitino esternazioni dettate da emozionalità o scarso approfondimento: creano solo confusione. E, dopo un anno di pandemia, è l’ultima cosa che serve.

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