Intervistato per L’Espresso da Gabriele Pedullà, lo storico e teorico politico americano John P. McCormick, autore del libro appena tradotto in italiano, Democrazia machiavelliana, ha espresso un augurio per il 2021: «che Mario Draghi diventi la quintessenza del traditore di classe alla Machiavelli... che tradisca i suoi amici neoliberali e attui delle vigorose politiche di sinistra». Che segua, par di capire, le orme di Joe Biden, scelto dal suo partito in quanto “interno all’establishment” ed ora, per necessità o forse anche per convinzione, ha deciso di prendere una strada che coraggiosa è dir poco.

E’ di questi giorni l’approvazione da parte della Camera dello stimolo fiscale da 1.900 miliardi di dollari, concepito per rilanciare l’economia.  «La Casa Bianca – ha commentato Mattia Ferraresi su questo giornale - da settimane non lo presenta più come un piano anti-Covid, ma come la legislazione più progressista nella storia americana», una riedizione della Great Society di Lyndon Johnson dove la pandemia non è che la tragica occasione storica».

La risposta alla pandemia può avere una forza trasformativa non premeditata. Così si esprime Mario Tronti su Il Riformista a proposito del governo Draghi, che «offre più opportunità che rischi».

E’ ragionevole stare sul crinale di un orrido guardando al sentiero stretto e sdrucciolo che calpestiamo invece che al baratro sotto di noi.

La possibilità che ci si apre di fronte è ancora più intrigante se si pensa a “come” essa sia emersa. Il “come”, il “modo” in cui si è giunti al governo Draghi non cambia nè cambierà, nonostante le buone conseguenze che ne potranno risultare.  

Il «modo ancor m’offende» nel V Canto dantesco si riferiva a come l’adulterio venne risolto, all’assassinio degli amanti Paolo e Francesca. Dante ha un’attrazione dolcissima e irresistibile verso quell’amore, sincero e poetico. Eppure quel suo personale sentire non vale a fargli assolvere i due innamorati – hanno peccato, non venialmente.

Quel che emerge da un processo può essere bello e buono, ma ciò non vale a cambiare il processo stesso e il nostro giudizio normativo su di esso.  

Sospendere il giudizio?

Per tornare alla prosaica politica, il processo e il suo svolgimento nel corso dei mesi che hanno preceduto la crisi del governo Conte II, non può non “offendere”.

Questo, indipendentemente dal giudizio sull’operato di quel governo, e dagli esiti che il governo Draghi potrà avere in serbo per noi. Lo stesso Draghi ha smorzato i toni delle celebrazioni ex ante quando alla Camera ha detto: «Vi ringrazio della stima che mi avete dimostrato, ma anche questa dovrà essere giustificata, validata nei fatti dall’azione del governo da me presieduto».

Attendere gli esiti comporta accettare una legittima sospensione del giudizio. Ma intanto, non possiamo sospendere un altro tipo di giudizio, quello appunto sul “modo”. Che non chiama in causa Draghi e il suo valore, ovviamente.

Eppure, quando si cerca di sviluppare questo argomento – lo ha fatto Gustavo Zagrebelski su Repubblica – si incorre nella critica di irragionevole disfattismo.  Le sensibilità dei critici sono diverse. Quel che le accomuna, sembra di poter dire, è la volontà di distinguere tra il “modo” che ha partorito il fatto e il “fatto”.

L’attenzione a non giustificare i processi con gli esiti equivale a uno sforzo della ragione a non identificare la valutazione dei processi con quella dei loro esiti.

Modi e fatti non sono la stessa cosa. Non è che gli uni valgano più degli altri; è che sono diversi. E chi ha a cuore la complessa dimensione della politica – modi e fatti – dovrebbe apprezzare questa diversità, evitando giudizi sommari.

L’evoluzione dei fatti non vale ad assolvere la modalità con la quale è stata resa possibile. Nè, d’altro canto, il giudizio sulla modalità deve oscurare quello sull’esito. E chi aspira a preservare una visione critica del mondo e della politica, non sbaglia se suggerisce questo metodo di giudizio ai propri concittadini.   

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