È di questi giorni la definitiva levata di scudi del ministro Renato Brunetta contro lo smart working. Dice il ministro che è ora di tornare alla normalità e che con il rientro in ufficio aumenterà il tasso di crescita del paese per la conseguente riattivazione dei consumi. E migliorerà la qualità dei servizi nella pubblica amministrazione. Non sono d’accordo su nessuna di queste considerazioni.

Intanto non sono d’accordo sul concetto di normalità. La normalità post-Covid dovrà essere una normalità diversa, non il semplice spostamento indietro delle lancette dell’orologio. Anzi dovremo fare tesoro della consapevolezza della fragilità del nostro modello di vita. Per cambiarlo.

D’altra parte la pandemia ha accelerato il cambiamento del lavoro legato alla rivoluzione digitale. Che modifica, per sempre, due caratteri della prestazione lavorativa: il vincolo del luogo in cui si svolge, quindi lo spazio, e la scansione rigida degli orari, quindi il tempo. Certo non tutti i lavori si possono svolgere da remoto, ma molti si. E in autonomia, sulla base di obiettivi e nel contesto di processi organizzativi coerenti. Non è ciò che abbiamo visto nella pandemia ma è ciò che è possibile e utile realizzare.

Per una valutazione corretta dell’impatto del lavoro agile sulla vita delle persone e dell’organizzazione sociale è però importante sgombrare il campo da una sequenza di equivoci o da veri e propri pregiudizi. In primo luogo il lavoro da remoto, post-Covid, non coincide con il lavoro da casa né è obbligatorio farlo tutti i giorni. Perché la flessibilità di tempi e luoghi ne è la caratteristica distintiva. In secondo luogo, la produttività del lavoro nella pubblica amministrazione non dipenda dal controllo gerarchico. Chi lo pensa rivela un giudizio sul lavoro pubblico. Infine lo smart working è lavoro, e non di rango inferiore.

Certo il lavoro da remoto va regolato nella contrattazione collettiva, non per decreto, in tutti i suoi aspetti. In modo da valorizzarne pregi e trovare soluzione ai problemi: dai costi scaricati dalle imprese sulle persone alla mancanza di socialità che i coworking di prossimità possono risolvere adeguatamente. Come sta facendo Milano.

Proprio a Milano si dimostra, ma vale anche per Roma, che con lo smart working al calo dei consumi in centro corrisponde il loro aumento in periferie, rianimate. Oltre alla riduzione di inquinamento, traffico e incidenti stradali.
In secondo luogo, non è lo smart working che determina il livello della qualità dei servizi della pubblica amministrazione. Certo la digitalizzazione non è la panacea di tutti i mali, ma ne è la condizione necessaria, anche se non sufficiente.

Non esiste automatismo tra efficacia dei servizi pubblici e digitalizzazione perché alla loro qualità concorrono le caratteristiche del processo organizzativo, le capacità della dirigenza, la formazione e la motivazione delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici.
Alfonso Fuggetta, studioso di innovazione della Pubblica amministrazione, ha da tempo suggerito che le criticità maggiori risiedono nella inadeguatezza dei back-end, cioè nella struttura e nella organizzazione dei processi e dei sistemi informatici di supporto. È questo snodo che impedisce di creare servizi più evoluti e di eliminare gli adempimenti che l’amministrazione ribalta sui cittadini. Non lo smart working.

Ma soprattutto il problema che risalta negativamente nelle affermazioni del ministro, è l'approccio di premessa. Se il lavoro da remoto è considerato l’evento subito durante il Covid per garantire la continuità produttiva in assenza di alternative, allora è giusto tornare indietro. Se invece lo si considera un'opportunità si deve guardare avanti.

E questo è il punto: il cambiamento del lavoro indotto dalla rivoluzione digitale non è da ostacolare, ma da favorire, valorizzandone i vantaggi. Di sistema, sulla vita delle persone e sullo sviluppo urbano. Certo i cambiamenti vanno gestiti e accompagnati nella giusta direzione dalle istituzioni, da chi amministra, dalle forze sociali. Senza farsi guidare da pigrizia o pregiudizi.

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