Nelle ultime settimane abbiamo letto molte affermazioni degli esponenti del governo - a partire dal ministro per la Funzione pubblica Renato Brunetta - sulla necessità di ridimensionare drasticamente lo smart working, soprattutto per i dipendenti pubblici. 

Quello che (solo) in Italia continuiamo a chiamare smart working, o lavoro agile, in molti casi di agile ha ben poco. L’idea di un lavoro svolto in ogni luogo e in ogni orario e l’immagine del dipendente pubblico che lavora con telefono e computer al tavolino di un bar è molto distante dalla realtà. Infatti, anche quando il lavoro è svolto da casa, il più delle volte il lavoratore non gode né di flessibilità né di autonomia.

Sarebbe meglio parlare di lavoro da remoto, o telelavoro. I dipendenti il più delle volte semplicemente svolgono a casa le stesse mansioni di quando sono in ufficio, con gli stessi orari e sistemi, ma in più sotto costante supervisione e spesso ancor maggiore tracciabilità dell’attività lavorativa.

Lo stesso lavoro per tutti?

La discussione sul lavoro da casa, in particolare nella pubblica amministrazione, viene gestita in modo monolitico, come se fosse possibile trovare una norma generale valida per tutti che prescinda da ruoli, mansioni e peculiarità dei compiti di ogni singolo lavoratore e ufficio. Al contrario, diversi uffici pubblici già adesso definiscono la percentuale di lavoro da casa che ciascun impiegato può svolgere.

Molti politici hanno poi scarsa conoscenza del fenomeno. Il lavoro agile riguarda, nel pubblico, poco più di un lavoratore su dieci. È vero che la modalità di lavoro da casa è quasi triplicata in pochi anni, passando dal 3,6 per cento del 2019 al 12,2 per cento del 2020. Ma questo sta avvenendo quasi ovunque e comunque in modo assai meno marcato in Italia che nel resto d’Europa. In Finlandia, ad esempio, nel 2020 un quarto dei lavoratori ha lavorato da remoto.

Perché allora questa levata di scudi contro il lavoro da remoto? I dati sull’erogazione dei servizi pubblici nello scorso anno smentiscono la visione del dipendente pubblico che avrebbe approfittato del lavoro agile per lavorare ancora meno. Al contrario, gli uffici hanno continuato a funzionare pur essendo gestiti dai lavoratori che rimanevano a casa.

Effetti collaterali

Le ragioni del no andrebbero cercate altrove. Per esempio, nella minaccia agli interessi economici – ristorazione e trasporti in primis - conseguenti a circa quarant’anni di terziarizzazione che il lavoro da casa ha spazzato via in un anno e mezzo di pandemia.

Oppure, l’aumentato rischio di isolamento del lavoratore e di colonizzazione della vita lavorativa a danno della vita privata. Non vogliamo minimizzare le (reali) conseguenze negative del lavoro da casa, ma non dobbiamo tralasciare le sue conseguenze positive. La riduzione del traffico, per esempio. Ma anche, per il lavoratore, un’alimentazione più sana e azzeramento dei tempi di spostamento casa-lavoro. 

Insomma, non si può considerare una modalità di svolgimento del lavoro, a distanza o in ufficio, unica, con un limite fissato a priori indipendente dalle mansioni, dal settore, dall’organizzazione dell’unità lavorativa. Per alcuni può avere senso un rientro due o tre giorni alla settimana, per altri sarebbe sufficiente una settimana al mese. 

Una strategia ponderata può essere quella di partire da cosa ritengono plausibile i lavoratori e che cosa preferiscono. Sono loro, infatti, quelli che meglio di tutti sono in grado di stabilire se è fattibile o meno svolgere la loro mansione da casa.

L’analisi dei dati della indagine straordinaria di Banca di Italia di novembre 2020 mostra che oltre la metà (54 per cento) degli intervistati ritiene che il proprio lavoro non possa essere svolto a distanza. Questa percentuale scende al 42 per cento se consideriamo i dipendenti pubblici. Tra coloro che ritengono possa essere svolto a distanza la percentuale media di lavoro fattibile si assesta intorno al 50 per cento.

Un altro dato interessante riguarda il fatto che un quarto di occupati ha svolto il proprio lavoro in ufficio pur potendolo potenzialmente fare a distanza da casa. Circa la metà di questi lo ha deciso autonomamente perché lo preferiva.

Partire dalle valutazioni e dalle preferenze dei lavoratori consentirebbe di tenere conto di tutte le specificità delle occupazioni e delle condizioni individuali, nonché valorizzare l’esperienza dei lavoratori e favorire una maggiore soddisfazione. Anche perché lavoratori più soddisfatti sono più produttivi, attaccati al lavoro e meno a rischio di ammalarsi.

© Riproduzione riservata