Nelle cronache vaticane ricorrenti sono gli scandali finanziari. Ma il nodo aggrovigliato dell’amministrazione dei beni della chiesa non è una novità dei nostri giorni. Senza risalire ai testi biblici, emblematica e corrosiva è la satira medievale intitolata Initium sancti evangelii secundum marcas argenti, che sferza la corruzione della curia romana, già allora proverbiale.

Composto in un latino che fa il verso a quello liturgico, questo «vangelo secondo i marchi d’argento» mette in scena lo stesso pontefice davanti a Cristo: «In quel tempo disse il papa ai romani: Quando verrà il figlio dell’uomo alla sede della maestà nostra, prima ditegli: amico, per cosa sei venuto? Ma se lui continuerà a bussare senza darvi nulla, gettatelo fuori nelle tenebre», immagine evangelica della perdizione.

In altre parole, è eufemisticamente molto difficile il rapporto tra gli ecclesiastici e il denaro.

Bonaventura Cerretti – il diplomatico pontificio (poi cardinale) che trattò a Parigi della questione romana e della conciliazione con l’Italia – generalizzava: se i preti si occupano di soldi, o sono imbroglioni o sono imbrogliati.

Un detto forse esagerato, ma che «non è molto lontano dal vero» secondo Pier Virginio Aimone Braida, canonista che ha studiato le finanze papali nell’ultimo mezzo secolo (ma che per le religiose attenua il detto).

Le istituzioni finanziarie

Al sessantennio della lunga transizione dallo stato pontificio, crollato nel 1870, alla nuova entità vaticana, nata nel 1929 con i Patti lateranensi, risalgono le istituzioni finanziarie di Oltretevere. Nel 1887 viene costituita una commissione cardinalizia antenata dello Ior, l’Istituto per le opere di religione, e lo stesso giorno della ratifica del trattato del Laterano il papa istituisce l’Amministrazione speciale della Santa sede per gestire il miliardo e 750 milioni di lire (circa un miliardo e 200 milioni di euro) versati dall’Italia in base alla convenzione finanziaria annessa al trattato.

Per farli fruttare il lombardo Pio XI, costruttore dello stato, ricorre a un uomo di fiducia. Era il conterraneo Bernardino Nogara, esponente – ha scritto Ernesto Galli della Loggia – di quell’alta borghesia che seppe servire la chiesa «all’insegna di un forte impegno etico e di un sostanziale disinteresse personale», rendendo «importanti servigi» anche allo stato italiano. In sostanza, un mondo scomparso e sostituito da «una genia di figuri» ai quali in Vaticano sono stati assegnati rilevanti incarichi finanziari ma «che qualunque persona appena avvertita avrebbe messo alla porta all’istante guardandosi bene dall’affidargli sia pure un centesimo».

Il topo in trappola

Il tagliente giudizio dello storico corrisponde a quello di Elisabetta Bani, docente di diritto dell’economia: «Non tutti gli scandali finanziari che hanno coinvolto ad esempio lo Ior hanno all’origine oscure trame e biechi fini inconfessabili, in qualche caso si è trattato di più banale (ma non meno pericoloso) dilettantismo. È sorprendente quanto sia riuscita a convivere con la nuova realtà finanziaria globalizzata una struttura operativa di tal fatta».

Del tutto diverso dall’oggi era appunto il mondo vaticano di quasi un secolo fa che emerge da una equilibrata biografia di Nogara (Al servizio dell’Italia e del Papa, il Mulino). Scritto da Angelo Caleca, giovane studioso a cui l’università non è stata capace di offrire un posto, il libro ricostruisce le «tante vite» dell’imprenditore e finanziere di Bellano, la località sul lago di Como nota dai romanzi di Andrea Vitali.

Il «laghée» Nogara, nato nel 1870 ed educato all’impegno sociale e politico negli ambienti milanesi del cattolicesimo risorgimentale e liberale, è dapprima ingegnere minerario in Val Trompia, in Galles e nei Balcani. Incaricato dal governo italiano, si afferma come uomo d’affari e diplomatico a Costantinopoli nel disfacimento dell’impero ottomano e poi nel dopoguerra europeo. In posizioni di rilievo, nei primi anni del fascismo riesce a conservare una certa autonomia dal regime.

Il 6 febbraio 1922 è eletto papa Achille Ratti, amico di famiglia in relazione soprattutto con un fratello di Bernardino, l’etruscologo Bartolomeo che da un anno e mezzo era direttore dei musei vaticani. «El rat l’è in trapola diranno i milanesi» scrive alla moglie Bernardino.

È la premessa della svolta nella vita del finanziere, che sette anni dopo viene infatti chiamato in Vaticano, suscitando in curia invidie e gelosie. Ma Pio XI si fida di Nogara e dei suoi consigli finanziari, nonostante difficoltà e rovesci dovuti alla crisi, e in prima persona segue la drammatica evoluzione dell’economia mondiale: «Sembrerebbe quasi che nella navicella di Cristo il battelliere sia diventato banchiere» scrive Tardini, uno dei grandi curiali di allora, poi cardinale.

Dopo il concilio

Nel 1939, morto il papa ed eletto il romano Eugenio Pacelli, i «longobardi» chiamati da Ratti vengono «espulsi dagli apparati amministrativi tecnici ed economici». Restano i due Nogara, ma Bernardino deve assistere al ritorno sulla scena dei romani e degli ecclesiastici. Questi, soprattutto dopo la guerra, riprendono il potere finanziario perduto e lo estendono in Italia, in un contesto che L’Espresso denuncia con la celebre inchiesta intitolata Capitale corrotta nazione infetta. Ormai vecchio, Nogara si ritira in Lombardia, amareggiato ma in rapporto con i due futuri pontefici Roncalli e Montini, e muore nel 1958.

Proprio i papi del concilio (come poi, nelle intenzioni, Luciani) tentano d’invertire la rotta intrapresa negli anni pacelliani e pensano alle urgenti riforme economiche.

Ambizioso è soprattutto il tentativo di Paolo VI di non acquisire «nessuna partecipazione importante in nessuna impresa» e di «fare in modo che la Santa sede non abbia un peso economico importante in nessun paese», come il cardinale Villot riassumerà nel 1978. Ma, fidandosi di uomini sbagliati, fallisce.

Le buone intenzioni

Il papato non più italiano non scioglie i nodi, che anzi si fanno più intricati: dalle vicende di Sindona e di Calvi, che coinvolgono lo Ior agli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, ai progetti di riforma – fortemente contrastati – di Benedetto XVI e poi di Francesco.

«Problemi che dovevano essere affrontati» spiega nella prima conferenza stampa Bergoglio, che in dieci anni ha pubblicato in materia una trentina di provvedimenti. Ma se da queste «buone intenzioni», come ha scritto Aimone Braida nel 2016, «si passerà alle azioni il futuro lo dirà».

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