Un altro ergastolo per la strage neofascista di Bologna. La corte d'assise d'Appello del capoluogo emiliano ha condannato Gilberto Cavallini, confermato il primo grado. Sentenza pesante soprattutto per chi al governo o seduto in Parlamento, tra i banchi della maggioranza, continua a sostenere che i fascisti con l'eccidio non c'entrano. «Nessuno di noi era a Bologna», è una delle frasi più citate nei post pubblicati sui social delle associazioni giovanili che fanno capo a Fratelli d'Italia, il partito di Giorgia Meloni, la premier.

Il verdetto arriva a un mese e mezzo di distanza dalle polemiche per l'atteggiamento equivoco dell'esecutivo nel giorno della commemorazione delle vittime. Ma più di tutto aveva fatto discutere il negazionista Marcello De Angelis, uomo di Fratelli d'Italia, condannato per banda armata, e assunto dal presidente della regione Lazio. Per De Angelis la matrice nera è una fantasia, una costruzione fondata sulle menzogne. Potremmo citare molti altri esempi, anche passati. La stessa Meloni prima di indossare l'abito di presidente del consiglio è stata una delle sostenitrici della pista internazionale, tesi che spopola a destra per proteggere quei vecchi camerati con cui molti di Fratelli d'Italia hanno condiviso gli inizi della loro carriera all' interno della galassia del Movimento sociale italiano.

L'ultimo ergastolo

Ecco perché l'ergastolo a Cavallini è elemento di imbarazzo in Fratelli d'Italia. Il terrorista nero è un pezzo pregiato delle truppe dei Nuclei armati rivoluzionari, il gruppo delle destra eversiva che ha seminato il terrore in tutto il paese con rapine, agguati, omicidi e l'attentato alla stazione del 2 agosto 1980, il più sanguinoso della storia d'Italia con 85 morti e 200 feriti. È stato uno degli esecutori, dunque, al pari dei suoi colleghi camerati, Francesca Mambro, Giusva Fioravanti, Luigi Ciavardini. E Paolo Bellini, personaggio oscuro tra mafia, servizi segreti e movimenti neofascisti di quegli anni. Bellini è stato condannato in primo grado, anche lui all'ergastolo, ma nel filone dei mandanti che ha individuato tra i finanziatori Licio Gelli, il capo della loggia massonica P2,

Mambro, Fioravanti e Ciavardini, hanno scontato qualche anno di carcere, poi tra semilibertà e benefici vari hanno ricominciato la loro vita lontano dai riflettori. Sono riapparsi durante il processo a Cavallini, come testimoni. Hanno continuato a negare di essere loro gli esecutori. Il processo a Cavallini e quello contro i mandanti ha però una particolarità rispetto ai dibattimenti ormai definiti in Cassazione sugli altri Nar: i magistrati e gli avvocati di parte civile hanno dimostrato che i nuclei armati non erano un gruppo spontaneista, ma era inserito in uno schema assai più ampio, manovrato anche da apparati deviati dello stato. Non rivoluzionari, quindi, ma braccio armato del sistema che i Nar dicevano di voler abbattere.

Per smontare questa narrazione rivoluzionaria è servito dimostrare il legame tra servizi connessi a Gladio (il gruppo paramilitare dell'operazione della Nato denominato Stay Behind, creato per proteggere i paesi occidentali dal pericolo sovietico) e membri dei Nar. Cavallini è uno dei punti di contatto: il 12 settembre 1983 i carabinieri perquisiscono un covo di Cavallini e trovano una mezza banconota da mille lire con il numero di serie che termina con la cifra 63. Il ritrovamento della banconota conduce a Gladio. Nel materiale investigativo raccolto sul gruppo paramilitare, infatti, c'è la foto di una mezza banconota da mille lire e il protocollo che spiega come utilizzarle. Il numero di serie termina con la cifra 63, la stessa trovata nel covo di Cavallini. A cosa servivano? Erano dei pass per accedere agli arsenali militari delle caserme del Friuli e ritirare armi o esplosivi.

Un impasto di poteri occulti e terroristi neofascisti. Sintesi di quel periodo della storia italiana, sulla quale l'estrema destra al governo vorrebbe avviare una grande opera di revisionismo. Con l'obiettivo di ripulire il passato di alcuni per smacchiare la fiamma di oggi.

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