Leonardo Del Vecchio comunica di aver raggiunto la partecipazione del 20 per cento in Mediobanca; e Gaetano Caltagirone incrementa la sua quota, potendo salire fino al 5 per cento. Non può essere una scalata strisciante, anche se insieme hanno un quarto del capitale contro l’11 per cento dei vecchi azionisti del patto, perché dichiarano di non agire di concerto, e perché l’autorizzazione ricevuta dalla Bce preclude loro il controllo.

Che due facoltosi imprenditori spendano tanti miliardi per una partecipazione potenzialmente di controllo, solo per incassare i dividendi ha dell’incredibile. E investire in una banca non è certo il modo migliore di far crescere la propria ricchezza, visto lo scenario avverso del settore che da 15 anni penalizza i titoli bancari (e Del Vecchio, azionista UniCredit, lo sa bene). Così, le reali intenzioni dei due rimangono oggetto di speculazione.

Scartata l’ipotesi che l’obiettivo di questi investimenti sia il controllo di Mediobanca e il rinnovo del suo consiglio, che infatti è stato appena rinnovato in continuità col precedente, l’ipotesi prevalente è che l’obiettivo sia Generali. Del Vecchio e Caltagirone sono infatti fra i principali azionisti dell’assicurazione (col 4,8 e 5,7 per cento rispettivamente) proprio dietro Mediobanca col 13: l’obiettivo sarebbe quello di usare il proprio peso nell’azionariato di Mediobanca (congiuntamente, disgiuntamente o parallelamente, purché non ci sia concerto per la Consob) per decidere il prossimo Consiglio di amministrazione della compagnia, magari sostituendo l’amministratore delegato, Philippe Donnet, accusato di non aver saputo tenere il passo con i principali concorrenti Allianz e Axa.

Comprare il 25 per cento di una banca per poter incidere su una sua partecipazione di minoranza mi pare una strategia fin troppo convoluta. Vero che ai prezzi attuali, il 25 per cento di Mediobanca vale circa un miliardo meno del 13 di Generali. Ma se l’obiettivo era comandare nella compagnia assicurativa, potevano incrementare direttamente la propria partecipazione in Generali e diventarne il primo azionista (sotto la soglia Opa), tenuto conto che i due già partivano, assieme, col 10 per cento.

L’obiettivo finale

Che azionisti insoddisfatti vogliano cambiare il vertice aziendale è legittimo. Ma per fare cosa? E come? “Far grande” Generali è un obiettivo troppo vago per essere credibile. Si può far crescere il valore di una società aumentando la redditività e le aspettative di crescita degli utili (che a loro volta incrementano i multipli alla quale la Borsa li valorizza), oppure facendo acquisizioni (anche se in questo caso la maggiore dimensione non implica necessariamente una maggiore redditività). Quanto alla redditività sul capitale, quella attesa dagli analisti per Generali nel 2022 (9,3 per cento) è inferiore sia a quello del settore europeo, sia alla media di Axa e Allianz (circa 10 per cento). Di conseguenza Generali vale 0,8 il suo patrimonio netto (stimato per fine anno), rispetto all’1 del settore (e 0,95 medio di Axa e Allianz). Si potrebbe dunque aumentare la valorizzazione di Generali incrementandone la redditività, ma se anche arrivasse a una capitalizzazione, rispetto al patrimonio, in linea coi principali concorrenti, rimarrebbe comunque ben distante da quelle di Axa o Allianz.

Se l’obiettivo fosse la dimensione bisognerebbe dunque fare acquisizioni. Ma Generali ha già una leva totale (attività diviso patrimonio) di quasi 19 volte, rispetto alle 12 e 13 volte rispettivamente di Axa e Allianz. Una campagna di acquisizioni dovrebbe essere pertanto finanziata con capitali, che i nostri non hanno intenzione di mettere, né la disponibilità visto gli obiettivi ambiziosi; ma neppure, immagino, siano disposti a farsi diluire visto la strada contorta e gli investimenti fatti sin qui.

Rimangono due spiegazioni. La prima, minimalista quanto realista: i due vogliono nominare un consiglio e un vertice su cui esercitare più facilmente la loro influenza, quale ne sia la ragione, perché Generali opera in settori limitrofi ai loro interessi (immobiliare); o perché, tra polizze vita e risparmio gestito, è uno dei principali attori finanziari in Italia; o perché è uno dei principali investitori nel debito pubblico italiano, che nei rapporti con Roma non guasta.

Ma c’è anche l’ipotesi di un grande disegno per creare il maggior gruppo finanziario europeo. Oltre che di Mediobanca e Generali, Del Vecchio è anche azionista di UniCredit. UniCredit ha un nuovo amministratore delegato capace, Andrea Orcel, che deve risollevare la redditività della banca, senza avere però un peso adeguato nel risparmio gestito, assicurazioni, credito al consumo o investment banking.

Un’opa di UniCredit su Mediobanca servirebbe allo scopo (senza sovrapporsi con la riorganizzazione dell’attività commerciale della banca) e Del Vecchio, consegnando il suo 20 (e Caltagirone il 5) la faciliterebbe. Se ipotizziamo un’opa con un premio del 20 per cento, Del Vecchio diventerebbe il primo azionista di UniCredit con quasi l’8 per cento (12 per cento assieme alle Fondazioni azioniste e Caltagirone). Ma il 13 per cento di Generali acquisito con l’opa non serve a UniCredit: ha bisogno del 51 per consolidare gli utili nel più redditizio mercato delle polizze e del risparmio gestito. Anche qui, Del Vecchio e Caltagirone (con Benetton e Crt), consegnando i loro titoli la renderebbero fattibile. Immaginando un premio del 25 per cento, Unicredit potrebbe arrivare a sfiorare i 60 miliardi, 15 più di Intesa, 30 più della principale banca tedesca o inglese, e contendersi con Bnp il primato europeo, Del Vecchio ne sarebbe il primo azionista col 6 per cento, che la controllerebbe di fatto insieme a Caltagirone (con quasi il 4 per cento) e agli altri soci “italiani” (in tutto il 14 per cento).

Un progetto per il futuro

I peana si sprecherebbero. Per Del Vecchio sarebbe come erigere una cattedrale a futura memoria; pure guadagnandoci, visto che incasserebbe un premio (insieme a Caltagirone) conferendo le sue partecipazioni in Mediobanca e Generali. Fantascienza? Forse; ma darebbe un senso ai suoi investimenti.

Detto così è semplice. Ma per quanto il mercato sia libero, senza la benedizione del governo e della Bce non si muove foglia.

Il governo deve uscire da Mps e UniCredit è l’unico compratore possibile (l’ipotesi spezzatino non ha senso).

Le ragionevoli condizioni che, secondo la stampa, Orcel avrebbe posto (zero impatto sul capitale, pulizia del bilancio, rescissione dei contratti di distribuzione in essere e manleva dei rischi legali) implicherebbero però un valore negativo di Mps per il Tesoro (eufemismo per dire che la banca è in una situazione potenzialmente fallimentare): politicamente difficile da digerire per il governo, anche se razionalmente sarebbe meglio arrossire oggi che impallidire domani (vedi Alitalia).

Qualsiasi sogno di impero rischia dunque di schiantarsi contro Mps.

C’è poi la Bce: accetterebbe l’imprenditore Del Vecchio in una posizione rilevante per il controllo nella prima banca europea, dopo che lo ha bloccato in Mediobanca?

Senza contare che bisognerebbe convincere gli azionisti di minoranza in Mediobanca e Generali a scambiare i loro titoli con quelli di UniCredit, che ha una redditività e multipli di gran lunga inferiori. Di solito è il contrario.

Bisognerebbe dunque pagare un premio elevato per convincerli ad aderire a un’eventuale opa di UniCredit, con una forte diluizione dei suoi azionisti, che non gradirebbero.

Quanto futuribile sia lo scenario, non lo so. Di sicuro, per essere solo un’operazione finanziaria, sembra già una maratona del Trono di Spade.

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