Una ricerca commissionata dall’Associazione Italiana Editori conferma quello che i professori universitari come me sanno da tempo, e cioè che molti studenti si preparano agli esami studiando principalmente i loro appunti, le slide delle lezioni fornite dagli stessi docenti e vari altri materiali, tra i quali le dispense, le registrazioni delle lezioni (oggi, dopo la fine dell’emergenza Covid, divenute illegali, a quanto mi risulta), gli appunti presi da altri studenti o le sintesi scaricate online (in genere a pagamento).

Solo il 32 per cento degli studenti, secondo l’indagine dell’Aie, dichiara di aver usato i libri di testo per la preparazione dell’ultimo esame.

Quali sono le cause di quella che per molti docenti, me incluso, è una tragica deriva in direzione di un’università senza libri? Come sempre nel caso di fenomeni complessi, le ragioni sono plurime.

Le ragioni

La prima motivazione è ovvia e riguarda l’esistenza di un grande mercato di appunti, sintesi, riassunti che circolano facilmente grazie alla rete e alle chat degli studenti. I bignamini, per usare un vocabolo da boomer, sono sempre esistiti, ma ora girano molto più facilmente di un tempo: sono facilmente ottenibili anche se prodotti in altri atenei e da persone sconosciute.

Il secondo elemento riguarda le abitudini di consumo culturale delle giovani generazioni: molti ragazzi leggono malvolentieri i libri di testo, ma ascoltano di buon grado le lezioni perché hanno maggiore familiarità con la parola parlata che con quella scritta.

Per le stesse ragioni preferiscono i messaggi vocali a quelli scritti nella comunicazione telefonica, o i film, i documentari e altri materiali audiovisivi ai saggi e ai romanzi. Se le cose stanno così, gli appunti delle lezioni o le slide permettono loro di ricordare facilmente quanto hanno sentito dire dal docente in aula senza dover ricorrere ai libri.

Un terzo fattore è costituito, lo sottolineava Adolfo Scotto di Luzio in un recente articolo apparso sulla rivista Il Mulino, dall’eccessiva frammentazione e concentrazione temporale di molti corsi universitari.

Nella sua carriera universitaria uno studente deve frequentare una pletora di insegnamenti e la stragrande maggioranza di questi viene erogata in tempi troppo ridotti per consentire un apprendimento davvero efficace, una “digestione” dei temi accurata e felice.

Libri scarsi

Un ultimo elemento è rappresentato dalla scarsa qualità dei libri di testo. Scrivere un manuale è diventata un’attività inutile dal punto di vista della carriera accademica, dal momento che le agenzie che valutano il nostro lavoro non la considerano un’attività meritevole di un particolare riconoscimento.

La conseguenza di questo atteggiamento è che pochissimi docenti che non abbiano già raggiunto la fase finale della carriera si impegnano nella redazione di libri di testo per gli studenti, privilegiando altri “prodotti di ricerca” (per usare la neolingua della burocrazia accademica). Questo fa sì che molti manuali siano datati, anacronistici, zeppi di riferimenti a situazioni e persone lontanissime dalla vita quotidiana di chi oggi frequenta l’università.

L’elemento più sconfortante di questa situazione è però rappresentato dal fatto che l’emarginazione dei libri si è tradotta in un’accentuazione e non in un ridimensionamento di una visione “pastorale” in senso foucaultiano del rapporto tra docenti e studenti.

Mi riferisco al fatto che gli appunti, le slide, le registrazioni e tutti gli altri materiali didattici utilizzati dagli studenti in luogo dei libri hanno come contenuto le parole dei docenti equiparate a un verbo indiscutibile e di fatto sacralizzate.

L’omelia professorale, per rimanere all’interno della metafora clericale, viene dagli studenti appresa parola per parola e riportata con una precisione da amanuensi sui quaderni degli appunti o più spesso ormai nei file aperti sui computer.

Le parole pronunciate a lezione finiscono insomma per costituire il “canone”, la dottrina definitiva, tutto quello che c’è da sapere su quel dato tema. Se si vuole passare l’esame con successo, di quel distillato di sapienza non bisogna perdere una goccia.

Sono molto spesso, e lo confermano i dati dell’inchiesta dell’Associazione italiana editori, gli stessi docenti a suggerire agli studenti di basarsi sugli appunti presi a lezione per preparare un esame che finisce per consistere nella ripetizione dei discorsi uditi in aula, recitati in forma scritta od orale a beneficio dei docenti.

Aspettative

Il rischio concreto è che molti tra questi ultimi, quando si sentono ripetere in forma pedissequa i contenuti delle loro lezioni, pensino di aver fatto il massimo possibile nel contesto attuale e che gli studenti ritengano di aver soddisfatto le aspettative del docente anche se della disciplina hanno appreso solo quella versione inevitabilmente semplificata che hanno udito in classe.

Non voglio naturalmente in alcun modo sminuire l’importanza delle lezioni, che rappresentano un momento straordinario e insostituibile della formazione accademica, l’occasione per la scoperta di nuovi sentieri culturali, un luogo di formidabile crescita intellettuale e umana per tutti, docenti e studenti.

Quel che penso è che esse non possano divenire di fatto l’unica opportunità di incontro con una disciplina scientifica (almeno nel caso delle scienze umane e sociali).

Per uscire da questa strettoia e completare la propria formazione è indispensabile la lettura dei libri, l’unica via che consente di farsi un’idea propria e di sviluppare un pensiero critico, di apprendere in profondità e in modo maturo gli strumenti culturali che l’università mette a disposizione. Speriamo di non dimenticarcelo mai.

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