Mi permetto di dissentire da Gianfranco Pellegrino che rileva una contraddizione nella rivendicazione da parte di politici cattolici di non soggiacere alla disciplina di partito (segnatamente il Pd) in tema di fine vita. Una premessa: giudico una bizzarria la proliferazione di leggi o delibere regionali su materia a tutti gli effetti di competenza del parlamento, da gran tempo inadempiente nonostante la nota sentenza della Consulta. Ma trattasi di questione altra che semmai ha a che fare con lo smarrimento di un elementare principio di ordine istituzionale un po’ a tutti i livelli e forse, in particolare, con la propensione delle regioni e dei loro sedicenti “governatori” a esondare dai confini tracciati dalla Costituzione.

Penso non sia difficile convenire sulla circostanza che una ben intesa deideologizzazione della politica e dei partiti rispetto al tempo dei partiti-chiesa abbia rappresentato un guadagno. Diciamo così, una loro “riduzione allo stato laicale” e, conseguentemente, la legittimazione e lo sviluppo, dentro i partiti, di un sano pluralismo culturale, etico, religioso. Da lì sortisce la convinzione secondo la quale, sulle questioni cosiddette eticamente sensibili che chiamano in causa più da vicino le concezioni etiche e i convincimenti genuinamente personali, non sia bene prescrivere una stretta disciplina di partito.

I credenti e la legge

È sulla rappresentazione radicalizzata della dicotomia laici-cattolici che Pellegrino non mi convince. Intanto, una nota concettuale-lessicale: anche i cattolici sono laici, secondo la radice etimologica di “laico”. Cioè appartengono al popolo, condividono a tutti gli effetti la condizione comune degli uomini. Non sono, né si sono mai concepiti come una setta.

Basterebbe rileggere la celebre lettera a Diogneto del secondo secolo dopo Cristo che documenta come già i primi cristiani si integrarono nelle comunità pagane. Certo, per cristiani la vita è dono di Dio, ma non per questo essi non sanno rispettare l’autonomia della legge civile positiva cui compete di regolare la vita di tutti, credenti, non credenti, diversamente credenti.

Anche perché, lo sappiamo bene, la legge non deve occuparsi di questioni metafisiche, ma più concretamente coniugare beni/valori talvolta, come nel fine vita, in tensione tra loro: la tutela della vita e l’autodeterminazione, la dignità del vivere e del morire. Trattasi cioè di giudizio pratico e inerente alla mediazione, la più possibile condivisa, tra principi e realtà.

La teologia morale e lo stesso magistero della chiesa hanno molto affinato il proprio pensiero al riguardo condannando l’eutanasia ma anche l’accanimento terapeutico. Distinguendo appunto con cura tra l’assolutezza del principio e il discernimento circa la sua applicazione al caso concreto. Non essendo contraria a una legge cui riesca di coniugare i beni/valori in gioco. Una legge che assicuri il “bene comune possibile” dentro le condizioni date, compresa quella (condizione) del consenso richiesto dalle procedure e dalle regole di uno stato democratico (ottenere la maggioranza) e una società liberale e pluralista.

Disponendosi, i cattolici, a cooperare attivamente a propiziare tale mediazione e ad accettare lealmente l’esito del confronto e della deliberazione democratica. E comunque, segnalo, che, su quale sia la concreta soluzione politico-legislativa più convincente circa il fine vita, tra cattolici (come tra i “laici”), si coltivano opinioni legittimamente diverse. A Dio piacendo, non abbiamo a che fare con due opposte caserme.

La proposta Bazoli

Per stare al caso nostro, giace in parlamento una proposta di legge a firma di un senatore cattolico, Alfredo Bazoli, che aveva fatto una certa strada nella scorsa legislatura. Proposta meditata ed equilibrata, ricalcata sulla sentenza della Consulta.

Una mediazione che raccolse l’apprezzamento di valenti giuristi cattolici e della stessa autorevole rivista Civiltà cattolica. Buon senso e buona cultura istituzionale suggerirebbero di ripartire di lì. Non assecondando la fiera scomposta del “regionalismo differenziato” di natura etico-legislativa.

Non abbiamo interesse, mi pare, a rappresentare i cattolici come una setta dalla postura e dalla cultura inconciliabile con i capisaldi di uno stato laico, liberale e democratico. Vero è che l’approdo alla conciliazione della chiesa con esso è stato tardivo e travagliato. In Italia, anche a motivo della “questione romana”. Ma perché negare che quel faticoso approdo si sia complessivamente compiuto? Perché offrire la rappresentazione di un insanabile conflitto di visioni, ingenerosa con il percorso compiuto da ambo i lati. Una rappresentazione che non aiuta a propiziare le mediazioni politico-legislative essenziali alla civile convivenza.

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