Perché si parla tanto di chi occuperà il Quirinale? Sono mesi che questo tema risuona nei discorsi della classe politica e, a cascata, nei media. Nel passato la questione rimaneva confinata nei conciliabili tra i leader dei partiti, con un certo gusto per la segretezza e le cortine fumogene: nessuno veniva proposto in anticipo per evitare che “si bruciasse”.

Oggi la situazione è del tutto diversa e, a parte l’auto-candidatura di Silvio Berlusconi, aleggia un altro nome, quello di Mario Draghi. Per molto tempo l’ipotesi di un trasloco del presidente del Consiglio alla presidenza della repubblica è stata osteggiata argomentando che Draghi doveva “finire il lavoro” e magari continuare anche oltre le elezioni del 2023, vaticinando maggioranze politiche a lui favorevoli. Il tutto reso possibile dalla permanenza a termine (sic!) di Sergio Mattarella sul colle più alto.

Il presidente della Repubblica però ha ripetutamente escluso questa possibilità e finalmente è diminuita la pressione sulla sua ricandidatura. Esclusa questa ipotesi. Il vero interrogativo riguarda l’opportunità per il sistema di una ascesa del premier al Quirinale.

Passo passo, aumentano i sostenitori di questa ipotesi, più volte ribadita anche in questo giornale. Le ragioni a favore di questa scelta sono chiare: Draghi è una figura di garanzia democratica, con grande autorevolezza sul piano domestico e di riconosciuto prestigio a livello internazionale.

Il Quirinale sarebbe presidiato per sette anni da una personalità che potrebbe garantire, come ha fatto Mattarella durante il governo giallo-verde, sulla affidabilità del sistema anche a fronte di maggioranze politiche lontane da sensibilità liberaldemocratiche, e più in sintonia con sovranismi ugro-polacchi e magari moscoviti.

Proprio per acquisire quella affidabilità internazionale che tuttora manca alla destra, ivi compresa la Lega, il cui leader continua a ostentare vicinanza con estremisti come Marine Le Pen e con populisti emarginati dalla comunità internazionale come il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, il vice segretario Giancarlo Giorgetti ha fatto uno specifico endorsement per Draghi, sopra le righe, parlando di semipresidenzialismo de facto. 

Giorgetti ha così innescato un dibattito vero sul Quirinale: tutti sono ora spinti a prendere posizione, a cominciare dal suo stesso partito. E nel caso della Lega la discussione non è accademica ma investe i suoi assetti futuri non solo nel rapporto con l’ambiente esterno bensì anche al suo interno.

Se Salvini impone di confermare la sua promessa a favore di Berlusconi, rinsalda la propria leadership nel partito e mette in riga Giorgetti.

Il rischio è che la Lega si voti all’emarginazione, sia per l’impresentabilità/improponibilità di un voto all’ex Cavaliere, sia perché in questo modo si autoesclude dalla scelta effettiva del prossimo inquilino del Quirinale.

Ma se Salvini accede all’indicazione pro-Draghi del suo vicesegretario, la Lega non sarà più quella anti-establishment  e populista della Bestia montante guidata fin qui dal Capitano: dovrà cedere i galloni del comando.

Una dimostrazione che il sistema ha bisogno di essere messo insicurezza, altro che affidarlo ai frequentatori di cene eleganti .

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