«Tecnico» è l’aggettivo tabù nelle consultazioni per la formazione del governo guidato da Mario Draghi. Pesa sulla parola il ricordo delle politiche d’austerità di Monti, ma anche l’evocazione dell’«incubo burocratico» di Bruxelles.

Non sorprende che molti partiti oggi si appellino alla «sovranità al popolo», specie quelli che hanno tratto il massimo vantaggio, in passato, dall’opposizione al potere dei «tecnocrati» in Italia e in Europa.

Il ricorso ai tecnici è in effetti un’extrema ratio che contraddice i canoni classici della democrazia. Il culto dei sapienti o degli esperti è, da Platone in poi, un tratto distintivo del pensiero anti-democratico ed elitista.

Tuttavia, sarebbe un errore vedere nei «tecnocrati» una minaccia esterna al volere del «popolo».

Il conflitto è interno alla politica democratica, riguarda il rapporto tra deliberazione e decisione, tra convinzione e compromesso o, con le parole della filosofa Margaret Canovan, tra il volto «pragmatico» e quello «redentivo» della democrazia.

03/02/2021 Roma, Mario Draghi convocato al Quirinale dal Presidente della Repubblica, nella foto le dichiarazioni al termine del colloquio

La domanda di salvezza rivolta al «migliore», chiamato a planare in veste di supereroe per sconfiggere il male che affligge la polis, è la manifestazione eclatante di un’impasse della democrazia rappresentativa.

Il problema non è la minore competenza dei rappresentanti eletti dal popolo rispetto a quella dei «tecnici», ma è la crisi delle procedure di costruzione del consenso, è l’incapacità dei partiti di uscire dal gioco di veti incrociati, e della politica tutta di offrire visioni e soluzioni credibili ai problemi del paese.

A questo malessere della democrazia parlamentare non contribuisce solo l’antipolitica tecnocratica. L’altro patogeno è la retorica populista, che ne rappresenta, almeno a parole, l’opposto. Il populismo e la tecnocrazia non sono solo l’uno una reazione all’altra, ma anche l’uno lo specchio dell’altra. Perché hanno un nemico in comune: la politica.

I movimenti populisti, nelle loro varie forme, attaccano l’establishment politico come inutile e corrotto, e avversano le procedure della rappresentanza come ostacoli all’espressione diretta della volontà del «popolo» per voce del leader.

I fautori della tecnocrazia mostrano a loro volta dispetto e dispregio per i processi lenti e onerosi di discussione e decisione.

Entrambi ritengono che governare non sia una questione di visioni partigiane, ma la risposta a problemi «oggettivi». Per i populisti, basta ascoltare il «buon senso» del «popolo»; per gli esperti, si tratta di affidarsi a calcoli ed evidenze. Entrambi offrono soluzioni che si presentano come «redentive».

Al contrario del populismo e della tecnocrazia, la democrazia rappresentativa non promette la salvezza attraverso la verità, ma garantisce uno spazio politico affinché le parti possano confliggere e accordarsi.

Non può essere il governo dell’expertise ma nemmeno quello del buon senso. Come scrive il politologo francese Yves Mény, «il ruolo della democrazia non è di mettere da parte coloro che sanno ma di utilizzare al meglio le loro competenze».

© Riproduzione riservata