Gli operai metalmeccanici scioperano per il contratto di lavoro dopo la rottura delle trattative con la Federmeccanica: chiedono un aumento di 150 euro lordi, gliene offrono 40. Il presidente della Confindustria Carlo Bonomi gli ha detto che  non è il momento di scioperare, trattandoli da irresponsabili.

Decenni di berlusconismo prima e populismo poi hanno reso impopolari le proteste di quelli «che almeno un lavoro ce l'hanno». Gli errori delle burocrazie sindacali,  più attente al proprio ombelico che agli interessi dei più deboli, hanno fatto il resto. Eppure, se solleviamo un po' lo sguardo dal pollaio di battutisti da social network e liberisti a gettone, scopriamo che i metalmeccanici non sono soli. La loro protesta ha due alleati importanti: uno sorprendente, il settimanale economico the Economist, e uno fortissimo, la statistica.

Nei giorni scorsi l'Economist ha pubblicato un lungo articolo intitolato "L'Italia spa caso esemplare di declino del capitalismo", ricordando di aver già definito 15 anni fa lo Stivale "il vero malato d'Europa". Quello che è per tutti  l'organo ufficiale del capitalismo non parla di scioperi, di costo del lavoro o di sindacati.

Se l'economia italiana «sta scivolando verso l'irrilevanza» la colpa è della classe dirigente in generale e degli imprenditori in particolare. Non dell'esosità degli operai.

La descrizione della ritirata è impietosa. Vent'anni fa le società italiane quotate in Borsa valevano il 6,2 per cento del totale europeo, oggi valgono il 3,7 per cento: meno delle società quotate spagnole e addirittura meno di quelle danesi (ma la Danimarca ha un decimo degli abitanti dell'Italia).

Solo sette aziende italiane figurano nella classifica delle prime mille del mondo, e i 77 miliardi di valore del gioiello nazionale, l'Enel, sono schifati come «un arrotondamento» delle cifre capitalizzate in Borsa dai giganti americani.

I capitani d'industria italiani - paragonati ai protagonisti del Gattopardo - in questi anni hanno pensato al patrimonio di famiglia piuttosto che a mettere le proprie aziende in grado di reggere le sfide.

Un capitalismo senile

Gli uomini simbolo del capitalismo italiano sono sempre gli stessi, ormai ottuagenari: Silvio Berlusconi (84 anni), Leonardo Del Vecchio di Luxottica (85), Luciano Benetton (85), Giorgio Armani (86). Secondo l'Economist il capitalismo italiano si sta dissolvendo a causa di tre problemi che si autoalimentano: pochi capitali, scarso consenso sociale, carenza di capitale umano.

Mancano i capitali, e le aziende si finanziano a debito con le banche, nonostante l'Italia abbia enormi masse di risparmio a disposizione. Una tenaglia mortale: gli imprenditori non chiedono capitali freschi al mercato per la paura di diluirsi e perdere il controllo dell'azienda di famiglia; i risparmiatori sono riluttanti a finanziare le imprese perché non si fidano di un sistema costantemente attraversato da scandali (l'Economist cita il numero uno dell'Eni Claudio Descalzi a processo per corruzione internazionale).

C’è un ulteriore dettaglio. L'Economist cita la nota classifica della Banca Mondiale chiamata "Doing business", che indica i paesi dove è più confortevole investire. E mentre in Italia si parla sempre delle stesse cose (corruzione, burocrazia, infrastrutture), stavolta l'indice viene puntato sul fatto che la posizione più bassa in classifica (122esimi nel mondo) l'abbiamo nella materia più imbarazzante: il rispetto dei contratti.

La reputazione internazionale degli imprenditori italiani è questa: hanno il maledetto vizio di pagare le fatture ai fornitori quando decidono loro e di onorare i contratti che firmano solo dopo aver perso una causa.

Il prezzo pagato dagli operai

Di tutto questo gli operai non hanno colpa. Ma ne pagano il prezzo. Lo dimostra lo studio sui salari italiani pubblicato dalla Fondazione Di Vittorio (emanazione della Cgil) e condotto su dati Eurostat, Ocse e Inps. Basti qualche dato.

I lavoratori italiani sono gli unici in Europa che guadagnano meno che nel 2007 (inizio della crisi). Il salario medio dei 15 milioni di lavoratori dipendenti (tutti, dall'usciere all'amministratore delegato) è di 30 mila euro annui lordi: in Germania è 42 mila. In vent'anni il salario medio tedesco è cresciuto del 20 per cento, in Italia è fermo. Ma questa è la media: tre quarti dei salariati italiani guadagnano meno della media.

Ci sono 1,7 milioni di precari e part time costretti a vivere con 5.641 euro lordi medi all'anno. Altri 2,5 milioni che raggiungono i 9 mila euro lordi medi all'anno. C'è una questione salariale e anche una questione sociale. Abbandonati da tutti i partiti e sostenuti solo dalla statistica, i metalmeccanici sono gli unici oggi a porre il problema.

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