L’episodio di Ankara – ribattezzato “sofagate” – sta facendo il giro del mondo. Ancora una volta, la diplomazia europea diventa lo zimbello dei commentatori perché incapace di anticipare e reagire alle provocazioni dell’autocrate di turno. In questo caso, il presidente turco Recep Tayyp Erdogan aveva predisposto una sola sedia accanto a lui per i colloqui sul futuro delle relazioni tra Unione europea e Turchia, riservandola al presidente del Consiglio europeo Charles Michel e costringendo un’imbarazzata presidente della Commissione Von der Leyen a sedere a lato, su un divanetto.

L’episodio è stato letto sotto varie lenti, tra le quali quella di genere: Erdogan avrebbe voluto riaffermare la propria forza umiliando la presidente della Commissione europea. E certamente Erdogan è un autocrate sprezzante dei diritti umani, che ha appena sancito l’uscita della Turchia dalla Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica. Tuttavia, questo caso sollecita anche alcune riflessioni sull’Ue e sulla sua politica estera.

La vicenda è anche imputabile all’assenza dello staff del protocollo della Commissione a causa delle restrizioni imposte dal Covid-19. Erdogan aveva già ricevuto insieme i presidenti del Consiglio europeo e della Commissione facendo sedere entrambi accanto a lui.

La presenza del protocollo della Commissione avrebbe potuto garantire lo stesso trattamento anche in questa occasione. Anche se, da un punto di vista strettamente protocollare, il presidente del Consiglio europeo negli impegni ufficiali all’estero viene prima del Presidente della Commissione.

Secondo Michel, lui e la presidente Von der Leyen avrebbero preferito lasciar correre sulle questioni protocollari per concentrarsi su quelle di sostanza – dai contrasti tra Turchia e Grecia nel Mediterraneo orientale alla migrazione, fino alle crisi in Siria e Libia.

E’ proprio qui la questione: troppo spesso l’Unione ha sacrificato valori fondamentali e la sua stessa immagine internazionale sull’altare del mantenimento della stabilità regionale o del perseguimento di interessi strategici specifici.

Così, nel Mediterraneo, il sostegno alla democrazia sembra essere passato in secondo piano dopo l’esaurimento della spinta delle primavere arabe, e la difesa dei diritti umani fatica a competere con le esigenze di sicurezza e controllo delle frontiere nelle relazioni con Turchia e Libia.

Chi fa la politica estera?

La visione federalista vorrebbe l’Unione dotata di un vero e proprio Ministro degli esteri, ma l’ultimo tentativo di istituirlo è fallito insieme alla proposta di Trattato Costituzionale bocciato dai referendum francesi e olandesi del 2005. Il Trattato di Lisbona del 2009 ha adottato una soluzione di compromesso, attribuendo nuove funzioni all’Alto Rappresentante, che è insieme vice Presidente della Commissione europea e presidente del Consiglio Affari Esteri del Consiglio dell’Unione (che riunisce i ministri degli Esteri degli Stati membri). E’ anche a capo del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, che dovrebbe essere il servizio diplomatico comune dell’Unione ma che, a 10 anni dalla sua creazione, non riesce ancora ad esercitare pienamente il suo ruolo.

All’Alto Rappresentante è affidata la rappresentanza esterna dell’Unione, che condivide però con il presidente del Consiglio europeo. Il Trattato non specifica quali siano le competenze rispettive, e la condivisione è lasciata alla prassi e alle buone relazioni tra coloro che occupano le due posizioni. Ma anche il presidente della Commissione ha un ruolo di rappresentanza esterna per le questioni internazionali che sono di sua competenza, dal commercio internazionale, all’allargamento, alla cooperazione allo sviluppo.

A questo quadro già complesso vanno aggiunti i rappresentanti degli esecutivi nazionali, in particolare di Francia e Germania, che più di una volta hanno gestito la politica estera al posto delle istituzioni.

Questo accavallamento di competenze crea confusione negli interlocutori e trasforma la politica estera europea in una cacofonia di voci che ne mina l’efficacia e la credibilità. In questa legislatura europea il problema è accentuato dalle ambizioni geopolitiche della Commissione, dichiarate da Ursula von der Leyen già nel suo discorso di insediamento, unite ad una voglia di protagonismo di Michel.

Per ora, a farne le spese era stato l’alto rappresentante Borrell, privato di una parte considerevole del suo portafoglio all’interno della Commissione. Questa volta la confusione e la competizione inter-istituzionale hanno penalizzato Von der Leyen e fatto il gioco di Erdogan. 

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