I due candidati sono sul filo di lana, e mentre manca il conteggio di alcuni stati importanti, come temuto e previsto, Donald Trump prova a bloccare lo spoglio. Questo tipo di interferenze nel procedimento elettorale è del tutto inconsueto, e come ci dicono le cronache alimenta forti tensioni nel paese.

Poiché, oltre a contraddire un costume politico di “fair play”, di correttezza, il caso può avere effetti anche su quell’equilibrio tra poteri che sostiene l’ordine costituzionale americano, è utile chiedersi quali siano effettivamente i poteri in gioco. I precedenti sono assai rari.

Nelle elezioni presidenziali del 1876 il candidato democratico Samuel J. Tiden ebbe 184 voti elettorali, uno di meno della soglia necessaria. Il repubblicano Rutherford B.Hayes ne ricevette 165, ma 20 voti erano ancora da assegnare.

La Camera dei rappresentanti, a maggioranza democratica, e il Senato, a maggioranza repubblicana, formarono allora una speciale “Electoral commission”, composta da 5 senatori, 5 deputati e 5 giudici della corte suprema. 8 erano repubblicani, e 7 democratici, votarono seguendo l’affiliazione di partito, e Hayes ottenne la presidenza.

Più rilevante ai nostri fini è invece il caso della competizione tra George W.Bush e Al Gore nel 2000, riguardante il voto della Florida, uno stato che è sempre stato in bilico tra i due partiti, anche per la sua peculiare composizione, con tradizionalisti conservatori all’interno e una vivace popolazione urbana sulla costa, per la presenza di comunità cubane e portoricane, e infine per il gran numero di pensionati, che “importano” nello stato le posizioni politiche più varie.

Quando Bush ricevette 270 voti elettorali, uno più della soglia richiesta di 169, la corte suprema della Florida ordinò di ricontare manualmente 61.000 schede che sembravano mal calcolate dagli appositi apparecchi a punzone. Era infatti in questione anche il diverso modo di contare i voti nei diversi stati, che a giudizio di alcuni costituiva una violazione del principio di eguaglianza.

Lo staff di Bush si appellò alla Corte Suprema perché fermasse il riconteggio manuale (che tra l’altro avrebbe richiesto tempo, mentre lo United States code – raccolta delle norme pubblicata nel 1926 – fissava un termine alla procedura). Il ricorso di Bush fu appoggiato energicamente dal giudice repubblicano Antonin Scalia e infine la corte, 7 a 2, aderì alla richiesta. Bush divenne presidente. Il conteggio, più tardi effettuato dai media, dette risultati contrastanti.

Cosa puo’ insegnare la vicenda? Non c’è dubbio che le provocazioni di Trump, così divisive e così contrarie allo spirito del sistema, possano provocare gravi tensioni e conflitti nel paese che rischiano di sfociare nella violenza urbana. Tuttavia il presidente non ha il potere di incidere concretamente sul conto dei voti, come può sembrare dalle notizie di stampa di queste ore. Deve eventualmente presentare ricorso alle corti, locali e semmai alle corti supreme degli stati, e infine alla Corte Suprema.

In questo senso il sistema ha le sue solide difese, organizzate attorno all’equilibrio dei poteri. Difese che d’altra parte oggi rischiano di indebolirsi.  Poiché i giudici federali – oltre che i giudici della Corte Suprema, come è ben noto – sono nominati dal presidente con l’approvazione del senato, l’orientamento complessivo del potere giudiziario, e l’equilibrio tra i poteri, dipendono dall’uso politico che venga fatto delle nomine da parte del presidente e della maggioranza del Senato, soprattutto quando essi siano politicamente allineati.

Il comportamento arrogante e provocatorio della maggioranza repubblicana guidata da Mitch McConnel nel boicottare le politiche democratiche - e tra esse anche la nomina alla Corte suprema di Merrick Garland fatta da Obama nel 2016 – costituisce un momento significativo di un grave scontro istituzionale. Perciò abbiamo nominato Antonin Scalia, giudice dal 1986 alla morte, nel 2016. Era un convinto conservatore, esponente di una visione per la quale la costituzione doveva essere interpretata in base all’ "original intent”, ovvero nello spirito con cui era stata scritta, dunque contrastando ogni innovazione.

Scalia puo’ rappresentare la “conquista repubblicana della corte”, e per estensione del Senato, un fenomeno che ha caratterizzato la politica americana degli ultimi decenni e nel cui solco di colloca anche Donald Trump, portandovi una virulenza e una arroganza del tutto nuove che senz’altro minacciano di alterare in modo significativo il delicato equilibrio dei poteri su cui si regge l’intero sistema.

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