Quali opportunità di effettivo cambiamento può dischiudere l’auspicabile fuoriuscita dalla pandemia? Valorizzare l’eredità “sociale” del “movimento dei movimenti”, di cui si è parlato anche su queste pagine, in relazione al ventennale del G8 di Genova, è senz’altro un primo passo. Un altro passo importante deve scaturire dalla piena consapevolezza di un disastro ambientale sempre più evidente, come le recenti tragedie in Germania e in Belgio hanno tristemente confermato.

Coniugare le politiche del lavoro (e sociali) e le politiche ambientali è sempre più centrale nella riflessione scientifica. Inizialmente, l’agenda politica – incentrata su obiettivi di crescita – ha fatto prevalere in modo netto lo sviluppo economico e la creazione di posti di lavoro rispetto alla tutela dell’ambiente. Più di recente, l’attenzione ambientale ha portato a una opposizione montante nei confronti di progetti che perseguivano la crescita economica e l’occupazione senza curarsi dall’impatto ambientale. Molte contestazioni contro il Tav, che hanno visto un’alleanza inedita tra istituzioni e rappresentanti della società civile, muovono dal presupposto che non basti un semplice calcolo di costi e benefici economico-occupazionali per approvare un progetto, ma si debba tenere in conto anche i costi ambientali.

Capitalismi diversi

Oggi il tema cruciale è la “transizione ecologica”. Tuttavia, come ben hanno compreso i francesi dopo le proteste dei “gilet gialli”, essa non è neutra né politicamente, né socialmente: nel caso francese è emerso con chiarezza quanto risulti inaccettabile che a pagare i costi della transizione ecologica sia esclusivamente la fascia della popolazione con reddito medio-basso.

Come risolvere il rebus (promuovere la transizione ecologica senza penalizzare occupazione, crescita e redditi medio-bassi)? Si può partire dal decostruire alcuni capisaldi del pensiero dominante, mai seriamente posti in discussione, come la convinzione che l’impegno per l’ambiente sia incompatibile rispetto alla crescita del Pil. In realtà, tale assunto è frutto della vittoria culturale del neoliberismo, ossia dell’idea che esista un solo modello di sviluppo capitalistico.

Tuttavia, nella storia abbiamo conosciuto diversi modelli di capitalismo, costruiti sulla base di differenti “regole del gioco”. Così come è (stato) possibile ottenere modelli capitalistici basati su elevata tassazione ed elevata distribuzione (e crescita), grazie al compromesso socialdemocratico di matrice keynesiana, in futuro si possono avere modelli di capitalismo orientati, ad esempio, a tutelare le risorse non rinnovabili. Sono le scelte politiche a disegnare le condizioni di fondo in cui si articolano i modelli produttivi. Un punto di riferimento – come ci ricorda l’economista ecologico Tim Jackson – deve essere la “prosperità”, ossia un modello di benessere che ponga al centro la tutela delle persone e dell’ambiente. Ed il mondo dell’economia solidale può svolgere una funzione trainante, sia come modello di impresa, sia come modello di relazioni sociali.

Transizione socio-ecologica

Per accompagnare un riorientamento progressivo dei sistemi economici contemporanei possono essere adottate diverse politiche: promuovere la riduzione dell’orario di lavoro, introdurre un reddito di base che consenta di contrastare efficacemente la povertà (così come, secondo un recente studio Caritas, è avvenuto con il reddito di cittadinanza), puntare su settori produttivi a impatto contenuto e su imprese disposte a scommettere sulla sostenibilità ambientale e sociale. Tali politiche possono contribuire alla “transizione socio-ecologica”, verso un sistema produttivo che possa proteggere l’ambiente e al tempo stesso contrastare la povertà e l’incremento delle disuguaglianze.

Si tratta di una strada non così lontana da quella suggerita dal “movimento dei movimenti” che, sin dal primo social forum mondiale del 2001, sintetizzava nello slogan “un altro mondo è possibile” un insieme di politiche che rivendicavano la protezione dell’ambiente, il superamento della povertà e l’accesso ad un lavoro dignitoso. Certo, come ricorda Stefano Feltri nel suo articolo del 22 luglio, il “movimento” ha sottovalutato «l’impatto profondo della tecnologia»; tuttavia, oggi è proprio quella tecnologia che, se da un lato potrebbe portare alla distruzione di milioni di posti di lavoro, al tempo stesso potrebbe generarne molti altri e facilitare l’introduzione di settimane lavorative più brevi e un minor utilizzo di mezzi di trasporto inquinanti. È su questo delicato crinale che si gioca la qualità della nostra esistenza futura, oltre che la tenuta dei sistemi politici democratici.

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