Dopo ben 48 ore di attesa, una prassi crudele che si aggiunge alla crudeltà generale della prolungata privazione della libertà, oggi si è saputo l’esito - altri 15 giorni di custodia cautelare - dell’ennesima udienza di convalida della detenzione preventiva di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’università di Bologna fermato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio scorso e formalmente arrestato, dopo lunghe ore di sparizione, il giorno successivo.

Come noto, Patrick è indagato per cinque reati, gli stessi contenuti nei mandati di cattura che colpiscono regolarmente attivisti, avvocati, giornalisti, dissidenti e difensori dei diritti umani: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Una persecuzione giudiziaria basata sul “copia e incolla” di inesistenti reati che è una costante degli ultimi sette anni e mezzo di storia giudiziaria egiziana.

Quelli attribuiti a Patrick dalla procura antiterrorismo egiziana si troverebbero in dieci post pubblicati su Facebook, che secondo la difesa dello studente sono stati scritti su un profilo falso ma che non possono essere contestati. Da circa 350 giorni Patrick langue in una cella della prigione di Tora, al Cairo, in condizioni durissime e nel costante pericolo di contrarre il coronavirus, che nell’enorme complesso carcerario egiziano ha già fatto vittime tra i detenuti, il personale amministrativo e la polizia penitenziaria.

Dall’8 febbraio le udienze di convalida della detenzione preventiva hanno prodotto unicamente una serie interminabile di rinnovi. Il motivo ufficiale è che le indagini devono andare avanti. La vera ragione, posto che non c’è nulla su cui indagare, è punire senza un processo e sottrarre all’attenzione dell’opinione pubblica un prigioniero di coscienza.

La detenzione preventiva può durare fino a due anni, al termine dei quali l’indagato va a processo o viene rilasciato. Ma non è raro che possa proseguire, attraverso un nuovo mandato di cattura che arriva sull’uscio del portone del carcere. E si ricomincia dal giorno zero, dalla casella zero di un cinico gioco dell’oca.

Undici mesi e mezzo di detenzione arbitraria, illegale e immotivata - a tanto siamo arrivati, di udienza in udienza - avrebbero potuto essere sufficienti per i giudici egiziani e invece no. Patrick, se non interverranno fatti nuovi e sorprendenti, trascorrerà l’anniversario del suo arresto in carcere.

L’attenzione della diplomazia italiana per la sua vicenda, concretizzatasi nella presenza di rappresentanti dell’ambasciata e di altri diplomatici nell’ambito del meccanismo di monitoraggio dei processi dell’Unione europea alle prime e alle ultime udienze (quelle centrali si sono svolte a porte chiuse a causa dell’emergenza-coronavirus) e, a dicembre, il dichiarato impegno del ministro degli Esteri a riportare presto Patrick dai suoi familiari, non hanno ancora prodotto risultati. Ma è importante insistere.

L’unico elemento di conforto è che Patrick è pienamente informato sulle iniziative di una sempre più solidale opinione pubblica che sente che la sua è anche una storia anche italiana. Lo ha recentemente confermato il comune di Bologna, che ha conferito la cittadinanza onoraria al “suo” studente con un voto unanime: la prova che storie come quelle di Patrick non dividono ma uniscono.

È proprio Bologna, del resto, a tenere l’umore di Patrick sopra il livello di guardia: ne sono testimonianze i continui pensieri che riferisce ai suoi familiari e alla sua avvocata, il disegno con l’albero di Natale con cui ha voluto fare gli auguri ai colleghi e alle colleghe di studio e l’ostinazione con cui rinuncia a essere visitato dai medici della prigione, perché il suo medico di fiducia è a Bologna. Bologna e l’Italia intera attendono che l’incubo termini.

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