«Serve un nuovo partito, non un nuovo segretario», ha detto Enrico Letta candidandosi a dirigere il Pd. Un partito che sia «aperto» e basato sulla «partecipazione». La coppia “apertura” e “partecipazione” è importante in un partito che si chiama “democratico”. Ma deve essere chiarita, perché riguarda un “partito” che, appunto, non può essere completamente aperto e nel quale la partecipazione ha forme deliberative specifiche.

I partiti hanno frontiere e porte di ingresso (e uscita): entrarci è una decisione individuale volontaria, che dà benefici e ha costi come non succede a tutti gli altri cittadini.

Costi: esporre al mondo la propria scelta partitica significa rinunciare alla segretezza del voto. Benefici: impegnarsi con costanza nel partito è un bene personale e collettivo; può significare avere più facilità di candidarsi a posti dirigenziali e, soprattutto, nelle liste elettorali.

Essere in un partito dà un vantaggio rispetto a tutti gli altri cittadini. Questo fatto è all’origine della diffidenza verso i partiti in tutte le democrazie.  

Nel nuovo secolo, per ovviare a questo problema, il Pd ha deciso di non essere più un paritto “appartenenza”. Invece di darsi regole di selezione più trasparenti ed efficaci nel controllare il potere delle candidature, ha eliminato le porte d’ingresso.

In questo modo, ha semplificato la partecipazione in un atto plebiscitario, in alcuni casi (primarie per il segretario) aperto anche ai non iscritti.  

Il Pd è nato con al centro il “cittadino-elettore” non l’iscritto. Al Lingotto, Walter Veltroni disse che l’iscritto «non intende dedicarsi stabilmente alla politica» ma rivendica solo il diritto di voto nei “momenti decisivi” della vita del partito.

Questa è la partecipazione nuova, concludeva Veltroni, «la quale viene prima dell’appartenenza». Il Congresso venne liquidato come orpello di un partito “appartenenza”. Le primarie divennero centrali, vere e proprie incoronazione del partito del leader.

Oggi “serve un partito nuovo” che renda la partecipazione più esigente e non valga solo a ratificare le decisioni dei leader. Che reintroduca il Congresso. E con esso la partecipazione che oggi, dice lo Statuto, è “scelta dell’indirizzo politico .... mediante elezione diretta del segretario” – ovvero il partito è quello che il suo segretario vuole. Il suo programma e il suo segretario sono una cosa sola.

Partito leggero e aperto significa partito plebiscitario a vocazione populista. E invece, la partecipazione dovrebbe essere deliberazione aperta prima di essere decisione. In questo caso essere iscritti tornerebbe a contare, e la partecipazione anche.

Apertura è una parola da specificare, quindi; vale per le idee, certamente, le quali però devono essere interpretate, e lo sono secondo prospettive specifiche a quel partito.

L’iscrizione è dunque un atto di specificazione e di responsabilità. Lo ha scritto Gianni Cuperlo su questo giornale, commentando la decisione di Letta di includere un non iscritto, Mauro Berruto, nella sua segreteria. Perché non sia “un segretario” a fare il “partito” occorre che il partito non sia più quel che è oggi. «Serve un nuovo partito», ovvero un nuovo statuto.

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