La tragica storia di Saman Abbas sta emergendo sempre di più come un pozzo senza fondo della violenza motivata da una visione oscurantista della realtà, dei rapporti sociali e del ruolo delle donne nella società. Scavando negli archivi ho recuperato un articolo che sembra di un’altra era. Un’intervista di Magdi Allam per Repubblica del 7 febbraio 2003 a un ventenne che poi diventerà parlamentare del Partito democratico. Allora Khalid Chaouki era portavoce dei Giovani musulmani d’Italia e avanzava richieste del tutto ragionevoli. Chiedeva un maggiore coinvolgimento dello stato in quanto «i nostri diritti e i nostri doveri li conosciamo, sono sanciti dalla Costituzione, ovviamente servono norme specifiche per regolarne l’attuazione». Quasi venti anni dopo cosa è cambiato? Continuiamo a restare abbagliati da nomi collettivi che esorcizzano le nostre paure, le semplificano, ci convincono che esistano delle risposte semplici, ma spesso sono quelle sbagliate.

Due negazionismi

Così si fronteggiano i due negazionismi: da una parte quello che fa finta di non vedere, dall’altra quello che pensa che per risolvere i problemi si potrebbe eradicare il diverso dalla sfera civile. Sono due approcci tipici dei tempi del populismo che ci troviamo a vivere. Negli ultimi vent’anni le istituzioni italiane, soprattutto tramite l’azione del ministero dell’Interno, hanno provato a far avanzare l’agenda delle relazioni con il mondo islamico italiano. Il Patto con l’Islam italiano, firmato nel febbraio 2017, è stato un primo importante risultato che le istituzioni hanno raggiunto con le comunità musulmane. Se si pensa che l’istituzione della prima Consulta per l’islam italiano è del 2005, con conferme successive, fino ad arrivare al gennaio 2016 con la creazione da parte dell’allora ministro Angelino Alfano dell’attuale Consiglio per le relazioni con l’islam italiano, ci si rende conto che è da anni che l’apparato statale ha potuto investigare il magmatico ribollire del complesso e plurale mondo dell’islam italiano.

Il rapporto con le comunità religiose è uno dei casi tipici in cui si rende necessario un nuovo protagonismo dello stato, una sua innovativa azione per pensare un paese sempre più plurale, che sta profondamente cambiando anche nella sua demografia religiosa. Ma l’azione delle istituzioni, da sola, non sarà sufficiente. È necessaria anche una lotta per il cuore dei giovani musulmani, per garantire il loro protagonismo nelle comunità insieme a quello delle donne. È necessario, inoltre, un ruolo delle forze politiche nella battaglia culturale per i diritti per tutti. Individuali, universali e non in base ai gruppi di appartenenza.

L’azione di Lamorgese

Cosa hanno da dire le forze progressiste del paese sul caso di Saman? Se lo è chiesto Giulio Cavalli in un interessante editoriale apparso su Left: «Si tratta di donne libere, che rivendicano il diritto di dire no. Servirebbe una sinistra che abbia il coraggio di dismettere un certo relativismo culturale per cui un femminicidio di una donna straniera passa sottotraccia. Davvero siamo a una sinistra con una così bassa capacità di elaborazione per cui teme di risultare razzista?». Quella per i diritti delle giovani donne italiane, per la loro libertà, per il loro diritto di dire no, indipendentemente dalla religione di appartenenza, è una battaglia che non dovrebbe avere colore politico. Dovrebbe essere una battaglia universale per i diritti di tutti, per la cittadinanza e la libertà. Quella che Saman Abbas cercava e non è riuscita a trovare. La ministra Luciana Lamorgese ha ben chiari questi problemi e anche durante i mesi della pandemia, quando le energie del Viminale erano impegnate su numerose urgenze, ha continuato a tenere alta l’attenzione sul tema. Ma senza un pari investimento delle forze politiche che sia netto e deciso, la macchina del Viminale da sola non può fare miracoli. Questo impegno è necessario ora, per tutte le Saman che ancora lottano e cercano la nostra mano.

 

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