La pace può ancora mettersi in cammino, e, alla fine, farcela: la pace può farsi raggiungere. Sembra dire questo la ricca e variegata delegazione che in modo assai insolito ha attraversato un pezzo d’Europa raggiungendo Kiev.

Delegazione di pace

Si tratta di un gruppo di attivisti particolare e ostinato, di pacifisti e “pacificatori”, a cui chi scrive si è aggregato nell’ovvia convinzione che specie in momenti simili si debbano rompere gli argini e gettare ponti tra cittadinanza attiva e politica.

E di politica, peraltro, se ne respira parecchia nei ragionamenti degli animatori di questa rete desiderosa di contribuire ad ottenere la tregua e la ricostruzione, il silenzio delle armi e la voce dell’incontro tra persone e popoli.

Lo sforzo di non appiattirsi

«Il nostro è un tentativo difficile ma necessario» sembra ripetere come un mantra Angelo Moretti, portavoce del Mean, il Movimento europeo di azione nonviolenta che aggrega trentacinque organizzazioni italiane, promotore di un’iniziativa che si presenta come un gesto innanzitutto non scontato. Si tratta infatti di un piccolo tentativo di fronte al dramma globale, certo, tuttavia  positivamente eccentrico perché non si appiattisce sul film terrificante di questi mesi ma prova a mettere in moto qualcosa di nuovo.

Prova, in pratica, a far sì che il sostegno, assolutamente limpido, espresso senza nessuna pericolosa equidistanza, nei confronti del popolo ucraino aggredito, si sposi con una volontà concreta di creare progetti per la ricostruzione senza attendere che «finisca la guerra».

Scambio e popoli

Del resto proprio Moretti ricorre al partigiano Germano Nicolini quando affermava «la gente pensa che la Resistenza sia stata soltanto un fatto d’armi. Ma sbaglia. La Resistenza fu soprattutto uno scambio collaborativo con il popolo».

E lo scambio collaborativo con il popolo vuol dire, in una Kiev che tenta di ritrovare spazi di normalità mentre di notte le sirene costringono ancora a raggiungere i rifugi, confronto e ascolto con chi vive ogni giorno con addosso l’odore della sporca guerra di Putin.

Un’invasione che porta dolore e drammi, spaesamento e incertezza.

Il sindaco e l’attivista

Ma che non scalfisce il sindaco della capitale, Vitalij Klycko, che ricorda quanto quel che accade riguardi proprio l’Europa e, pure,  Vladyslava Zapashnaya , giovane attivista ucraina, la quale con il sorriso conclude attraverso un intervento vibrante una delle occasioni di dibattito parlando il linguaggio della speranza : «Abbiamo un sogno, costruire insieme a tutti i nostri coetanei europei il futuro, ce la faremo».

Un futuro che passa dalla relazione con gli altri, o, fatto non banale, dalla proliferazione dei rapporti tra le città ucraine e italiane o dalla definizione di un corpo “di pace” realmente attivo come ricordano gli attivisti del Mean, i quali in mesi durissimi anche sul piano della dialettica si permettono di coniare lo slogan eretico More arms for hugs cioè «più braccia per gli abbracci».

Non possiamo accontentarci

Poiché il punto, più problematico e pure assolutamente convincente, dell’iniziativa realizzata a Kiev, sta proprio nella necessità di non limitarsi al “sostegno” armato ed anzi di sapere che se esso diventa l’unica risposta in campo, una sorta di manifesto ideologico assoluto che divora il resto, non prendono spazio la diplomazia, il negoziato, il rifiuto della guerra ma guadagna altro terreno l’escalation.

Per questo Riccardo Bonacina, Marco Bentivogli, Marianella Sclavi e altre voci del Mean ribadiscono in continuazione un concetto semplice: «Non bastano le armi», e domandano all’Europa, se posso riassumere così, di non «accontentarsi».

Per un’Europa esigente

Di non accontentarsi, aggiungo, sul ciglio delle numerose risoluzioni e raccomandazioni assunte dal Parlamento europeo, sul fronte delle (indispensabili) sanzioni o, perfino, su quello, solidale e bellissimo, dell’accoglienza.

Serve, lo scrivo da Kiev con negli occhi le immagini dei cittadini della capitale ucraina intervenuti, un’Europa esigente.

Che cerchi di mettersi nel mezzo, di non delegare ad altri la propria funzione, di ritrovare protagonismo riflettendo, pure, senza autoassoluzioni su tutto quello che non ha fatto per evitare la guerra in anni nei quali, nell’ombra, cresceva la minaccia di Putin.

Un’Europa che dica agli ucraini e al mondo che, dalle parti di Kiev, c’è oggi e ci sarà domani.

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