Negli ultimi giorni è stato pubblicato il QS University World Rankings 2022, una delle più note classifiche internazionali delle università. Anche quest’anno il sistema universitario italiano ne esce molto male. Nessun ateneo italiano è tra i primi cento. Il Politecnico di Milano, primo tra gli italiani, è appena 142esimo in classifica. Seguono l’Università di Bologna al 160esimo posto, e la Sapienza di Roma al 171esimo. Per trovare le altre bisogna scendere sotto quota 200. 

Uno dei fattori che penalizza di più le università italiane nell’algoritmo di queste classifiche – e che ne mina anche l’effettiva qualità - è il numero molto alto di studenti per docente. Se a Stanford, seconda in classifica nel QS Rankings ci sono solo 4 studenti per docente, alla Sorbona (72esima) sono 14, al Politecnico di Milano, si arriva a 23 studenti per docente e alla Sapienza addirittura 46,3 studenti per docente!

È vero che alcune università, come Padova, la stessa Bologna e le private stanno un po’ meglio con circa 20 studenti per ogni docente. Ma i dati complessivi parlano chiaro. Nella UE a 27 paesi ci sono in media 3.000 docenti universitari per milione di abitanti. In Italia 1.500, ovvero la metà. Secondo Eurostat nel 2018 in Italia i docenti universitari (considerando anche i precari) erano 90mila. La Spagna ne aveva quasi il doppio a 171mila, la Germania 416mila. 

Oltre a essere esiguo, precario e malpagato rispetto a altri paesi europei, il nostro corpo docente è il più anziano d’Europa, a causa del blocco del turnover e delle diverse tornate di tagli a partire dalla riforma Gelmini. 

È ampiamente dimostrato che un sistema universitario forte è fondamentale per un’economia avanzata e produzioni a alto valore aggiunto, nell’informatica, nelle telecomunicazioni o nelle biotecnologie. Basta guardare agli Stati Uniti, alla Germania (dove le università sono gratuite) o a tanti paesi asiatici come la Corea del Sud risorti grazie alla ricerca. Ma è impossibile avere un sistema universitario forte se banalmente non c’è il personale necessario. 

A causa del basso numero di docenti, in Italia l’educazione universitaria troppo spesso si riduce a sale di cinema stipate di studenti e infinite sessioni di esame. Le attività seminariali e di laboratorio, i ricevimenti, il mentoring - attività personalizzate che sono fondamentali per un’educazione di alto livello – diventano impossibili, contribuendo all’alto tasso di abbandono del nostro sistema. 

Non è un caso che l’Italia sia anche il paese europeo con il livello più basso di studenti universitari e laureati per abitante. Nel 2018 avevamo 1.890 mila studenti universitari contro gli oltre 2 milioni della meno popolata Spagna. Quanto ai laureati, insieme alla Romania l’Italia è l’unico paese europeo con meno del 30 per cento della popolazione 30-34 anni laureata. Paesi come Francia, Olanda e Belgio sono attorno al 50 per cento, altri come Svezia e Irlanda sono già sopra quella cifra.

Per rimediare a questa situazione sarebbe necessaria una tornata straordinaria di assunzioni di decine di migliaia di docenti e ricercatori per portare il nostro paese vicino alla media europea. Ma tutto questo è impensabile visti i miseri finanziamenti destinati al settore universitario. L’Italia è fanalino di coda tra i paesi europei per spesa pubblica in educazione universitaria: appena lo 0,3 per cento del Pil contro una media dello 0,8 per cento. La Spagna è allo 0,6 per cento, il doppio dell’Italia. 

Delusione Pnrr

Anche le speranze legate al Piano nazionale di ripresa e resilienza sono andate in fumo. Il piano Amaldi chiedeva 15 miliardi da dedicare alla ricerca. Ma dal Pnrr solo circa 7,5 miliardi di euro spalmati su sei anni andranno a università e ricerca. Inoltre creeranno solo assunzioni a tempo determinato in un sistema già noto per l’eccessiva precarietà e spezzettamento di carriera, in cui il 20 per cento dei nostri già pochi dottorati finisce per scappare all’estero in cerca di stabilità lavorativa.

Lo stato disastroso del sistema universitario italiano, il nostro servizio pubblico più sacrificato, non comporta solo un danno per gli studenti, a cui si offre un’educazione universitaria scadente; né solo per i ricercatori e professori italiani costretti o a emigrare o sopportare un carico didattico con pochi paragoni a livello continentale. A pagarne le spese è prima di tutto la collettività. Secondo l’economista Gianfranco Viesti il costo per “produrre” un laureato ammonta a circa 30mila euro, ma i benefici pubblici in maggiori introiti fiscali e minori trasferimenti sociali sono ben 100mila a laureato. Eppure una parte della classe politica e dell’elettorato continua a vedere l’università, e i professori e i ricercatori che in essa lavorano, come uno spreco. 

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