Ho trent’anni, sono un dottorando in buona salute: è giusto che mi vaccini prima di mia nonna? Sono anziana ma posso vivere riparata, non dovrei lasciare il posto alla madre di un ragazzo disabile o a un paziente oncologico? Domande come queste si leggono sui social, si sentono tra amici, si orecchiano per strada.

In Italia la campagna vaccinale, partita tra ritardi ed errori, in un contesto di scarsità di forniture e indicazioni diverse per tipologie di vaccini, fatica non solo a soddisfare le esigenze di tutela delle fasce più vulnerabili nella popolazione, ma anche a rispondere a criteri condivisi di giustizia. Da qui nascono gli interrogativi che trasformano la partecipazione alla campagna vaccinale in un dilemma interiore. Per molti la questione non è se vaccinarsi o no, ma è: ora o dopo, io o un altro? 

A un anno di distanza dall’inizio dell’emergenza, la discussione sull’appropriatezza dei criteri e la messa in discussione di quello che è vissuto come un privilegio appaiono come segnali di vitalità etica del paese. C’è, lo sappiamo, chi trucca le carte e salta la fila. C’è anche chi, però, il proprio posto in fila lo lascerebbe volentieri a persone più bisognose.

Leggiamo questioni simili sul New York Times Magazine, tra le colonne della rubrica The Ethicist tenuta dal filosofo Kwame Anthony Appiah. Un giovane del Montana gli scrive chiedendo se è giusto iscriversi alle liste di riserva, rischiando di prendere il posto di chi ha più bisogno. Un lavoratore di New York è preso da un dubbio etico: avrebbe diritto a vaccinarsi nella sua categoria ma il suo effettivo stile di vita non lo espone realmente a rischio.

Porre questioni simili contribuisce a ragionare di politiche sanitarie in termini di equità, e a denunciare le ingiustizie del sistema, specie se dettate da interessi particolari. Ma è necessario che arriviamo a porci questi interrogativi a livello individuale? Ovvero, la partecipazione alla campagna vaccinale deve essere vissuta come l’accettazione passiva o il rifiuto volontaristico di un privilegio?

Ci sono tre ragioni per rispondere negativamente. La prima è che la lista di priorità, anche se imperfetta o illogica, è legittima se disposta con deliberazione degli organi competenti, e chi vi rientra non sta usurpando il posto di qualcun altro. La seconda la spiega Appiah: «qualsiasi sistema che faccia un ragionevole tentativo di essere efficiente ed equo nel raggiungere l'obiettivo di ridurre il danno causato dalla pandemia è accettabile, nonostante i discutibili risultati prodotti in casi particolari»; viceversa, l’adozione di criteri troppo specifici per distinguere questi casi produrrebbe effetti avversi.

La terza e più importante ragione è che la sconfitta la virus Sars-Cov-2 dipende dal carattere di massa della campagna di vaccinazione, perciò sottoporsi all’iniezione non significa solo proteggere il proprio benessere, ma anche quello degli altri. Il punto, dunque, è ragionare in termini collettivi e non individuali. Vaccinarsi non è solo un diritto, ma anche un dovere.

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