La protesta dei trattori, iniziata nel clima di disattenzione generale che accompagna sempre l’agricoltura e il cibo, questa volta si sta facendo sentire con sempre più vigore in tutta Europa. E questo, diciamolo subito, è un bene.

Le proteste sono sempre sacrosante. Quando riguardano il settore primario, quando cioè hanno a che fare con la produzione di cibo, allora meritano uno sforzo di attenzione e comprensione in più. E qui vengono i primi problemi perché, in effetti, le rivendicazioni degli agricoltori sono molto diverse a seconda di chi le pronuncia e da quale latitudine vengono rivendicate. In Germania, ad esempio, dove già da dicembre una estesa protesta di agricoltori e allevatori ha bloccato l’accesso alle strade, nel mirino c’è il governo federale reo di aver eliminato i sussidi per il gasolio e negato le agevolazioni fiscali per l’acquisto di macchine agricole e forestali. Il blocco degli Stati dell’est vicini all’Ucraina, Polonia e Romania, ce l’ha con l’import di grano a dazio zero da Kiev perché sta sbilanciando fortemente il mercato interno.

E poi Francia, Paesi Bassi, Spagna, Regno Unito, Serbia e Italia. Nel nostro paese le proteste sono iniziate quando, con la legge di Bilancio approvata a fine dicembre, il governo Meloni ha abolito l’esenzione Irpef per il settore agricolo. Inoltre il governo ha cancellato l’esenzione contributiva di 2 anni per gli imprenditori agricoli under 40 e ha reso l’assicurazione contro gli eventi climatici estremi obbligatoria. Le manifestazioni che attraversano il nostro paese sono molto variegate. A guidare gli agricoltori dei Comitati riuniti agricoli (Cra) c’è una vecchia conoscenza, Danilo Calvani, ex fondatore della Lega nel Lazio ed ex leader del Movimento 9 dicembre-Forconi, protagonista di alcune mobilitazioni di piazza contro il governo Monti nel 2012. Se ci limitatissimo a leggere il curriculum di Calvani e quello sciagurato movimento dei forconi, allora dovremmo sentenziare che è una protesta sbagliata. Ma commetteremmo un errore. Perché le ragioni (e le partecipazioni) a questa protesta sono molto più profonde, e quindi, prima di tutto, vanno capite.

Il racconto che se ne fa in queste ore è quello di una dicotomia tra misure ambientali e necessità agricole, tra cibo e ambiente. La protesta europea è stata letta esclusivamente come una sfida all’agenda verde dell’Unione. In effetti quasi ovunque i manifestanti si scagliano contro il Green Deal (e la sua artefice Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, oggi in lizza per un nuovo mandato): un pacchetto di riforme approvato per rendere più sostenibile la vita e l’economia all’interno dell’Ue. Si dice, cioè, che le misure ecologiche sono un freno alla produzione e un costo che l’agricoltore non può sostenere.

Ma il problema è il costo per l’agricoltore, non la misura ecologica in sé. E infatti in Italia i guai iniziano quando vengono tolte le detrazioni Irpef, in Germania quando vengono eliminati i sussidi al gasolio perché ambientalmente dannosi.

Insostenibilità

Il problema vero, quello profondo, quello che facciamo finta di non vedere, cioè, è che produrre cibo è economicamente insostenibile. Traduco: se un agricoltore è (spesso) costretto a vendere sotto i costi di produzione, è chiaro che quando gli togli i sussidi o imponi restrizioni (ambientali o meno) scende in piazza per l’esasperazione. Ma se ci concentriamo sulle restrizioni o sui sussidi guardiamo il dito e non la luna (il costo del cibo). E allora forse dovremmo iniziare a concentrarci proprio sul costo del cibo, su quanto dovrebbe essere pagato l’agricoltore per il proprio lavoro, su quanto la distribuzione (i supermercati) comprime il prezzo della parte agricola e produttiva e su quanto dovrebbe costare il cibo sullo scaffale di un supermercato.

E, se fossimo in grado di fare tutta questa riflessione, dovremmo anche aggiungere che, perché il cibo possa essere pagato quanto si deve, allora dovremmo alzare i salari di chi va a fare la spesa, cioè tutti noi. Come denunciamo con Terra!, le aziende agricole europee oggi stanno soffrendo moltissimo. Negli ultimi quindici anni l’Ue ne ha perse 5,3 milioni. Oggi ne restano meno di 10. Il ruolo dei cambiamenti climatici, la perdita di biodiversità, i bassi redditi e i prezzi che sfiorano pericolosamente i costi di produzione sono le più grandi minacce che un produttore si trova ad affrontare. In quelle piazze c’è chi chiede di dare giusta attuazione alla direttiva Ue sulle pratiche commerciali sleali, approvata nel 2022, in cui si impone ai distributori di pagare ai produttori il giusto prezzo, senza vendere al di sotto dei costi di produzione; chi chiede che i prezzi agricoli non siano più soggetti a speculazioni finanziarie – come sta avvenendo fin dall’inizio del conflitto ucraino – visto che poi determinano i redditi degli agricoltori.

E c’è chi chiede di rivedere i criteri di erogazione dei finanziamenti agricoli tramite la Pac, la Politica agricola comune, che rappresenta un terzo del bilancio europeo. Criteri che, nonostante l’opposizione delle realtà ambientaliste, premiano ancora le aziende più grandi che, però, sono meno inclini alla sostenibilità agricola. Basti pensare alla Romania, uno dei teatri delle proteste di queste settimane, il paese con più aziende agricole in Europa, circa 3,5 milioni, il 90 per cento delle quali è però inferiore ai 5 ettari.

Schiacciati dai vincoli Ue

Oggi l’agricoltura, vittima e carnefice dei cambiamenti climatici, va sostenuta in una transizione non facile, come non facili sono le condizioni economiche dell’Unione. E questi trattori sono tornati a ricordarcelo. La politica, impegnata a saltare sul carro dei “trattoristi” in base alle necessità del momento, deve invece prepararsi a dare risposte serie, perché serie devono essere le politiche per il cibo del futuro. A poco servono le strumentalizzazioni dell’estrema destra europea, che ridicolizza le politiche ambientaliste. E male farebbe la sinistra a non cogliere le ragioni profonde di questo malessere. Bisogna continuare a produrre, ma bisogna cambiare qualcosa.

Intanto i governi di Francia e Germania, intimoriti dalle proteste, fanno i primi dietrofront su alcune riforme in campo agricolo. Perché una verità è emersa da queste piazze: è necessario rimettere gli agricoltori al centro della filiera agroalimentare, e questo vuol dire che bisogna smettere di produrre il cibo a prezzi stracciati.

Le proteste degli agricoltori suggeriscono una sofferenza molto più grande di quello che in questi giorni si è provato a raccontare. Molto più grande anche di una bistecca di carne sintetica, usata ormai solo per semplificare la complessità di un mondo che nessuno è più in grado di ascoltare.

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